Le 3 incognite dell’era postamericana

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Agosto 1991: fallisce a Mosca un colpo di Stato ebbro e maldestro che vuole restaurare l’antico potere dell’Unione Sovietica e invece la manda in pezzi: accanto alla Russia, che passa sotto la guida del filo-americano Eltsin, nascono altri 14 Stati indipendenti, dall’Ucraina al Kazakistan. Scompare la superpotenza che per più di 40 anni, in tandem con gli Stati Uniti, ha disciplinato e indirizzato la politica mondiale.

Agosto 2021: gli Stati Uniti eseguono una catastrofica ritirata dall’Afghanistan in base a un accordo con gli ex nemici talebani cui è consegnato lo Stato in cambio, sembra, dell’impegno a tenere sotto controllo le milizie jihadiste. Durante la loro supremazia solitaria gli Stati Uniti hanno avviato una lunga serie di guerre – Somalia, Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria – da cui, con l’eccezione della ex-Jugoslavia, sono usciti sempre perdenti.

Il mondo che cambia

Il periodo 1991-2021 ha visto cambiamenti senza precedenti, economici ancora prima che politici: rivoluzione digitale, enormi progressi tecnologici (medicina, materiali, spazio), globalizzazione e delocalizzazioni, frattura nelle società occidentali fra vincenti e perdenti del mondo unificato, ascesa della Cina a superpotenza. Questo sviluppo porta in sé un contrasto e una domanda. Il contrasto è evidente: da un lato le democrazie hanno scatenato un dirompente boom tecnologico che cambia in meglio la nostra vita, alimenta la crescita mondiale e promette di espandersi ancor più nei prossimi anni; dall’altro lato la loro azione politica – europea, non solo americana – è incerta, oscillante, perde influenza. La domanda che ne segue è: perché un così ampio primato tecnologico non dà dividendi politici?

I due obiettivi americani

Il motivo-base è un’ideologia potente che domina il periodo e offusca la visione strategica. Gli Stati Uniti usano il loro primato, almeno fino al 2016 (Trump), per due obiettivi principali: aggiustare regioni disordinate (e antiamericane) provando a migliorarne la stabilità e il tasso di democrazia; promuovere gli interessi dei settori economici di punta (finanza, high tech).

Il primo obiettivo nasce da una sindrome delle chance illimitate: alla fine del secolo scorso il divario di potenza fra gli Stati Uniti e le altre nazioni è così grande che ogni traguardo appare raggiungibile. La sindrome presuppone una concezione della società che mette da parte le complicazioni della storia e immagina la democrazia come un modello valido per tutti che finora non si è realizzato ovunque solo per le distorsioni provocate da dittatori avidi di potere. Al fondo è ancora l’idea di Woodrow Wilson che voleva modellare la mappa del mondo secondo giustizia: nonostante i danni compiuti da Versailles in poi, ritorna con forza e la sua mancanza di realismo lascia gli Stati Uniti esposti a contraccolpi non previsti.

La situazione peggiora quando s’impone, in risposta agli attentati del 2001, la formula della “guerra al terrorismo”: vaga (le guerre si fanno tra Stati) e ambigua, è un lasciapassare per la dismisura: Bush jr. si avventura prima in Afghanistan poi in Iraq e Obama innesca le primavere arabe per sostituire dittatori – anche filoamericani: Mubarak – con regimi elettorali dove il potere, sponsor Erdogan, finisce ai Fratelli Musulmani, il gruppo politico più forte reputato garanzia di stabilità. Le scelte di entrambi i presidenti sono catastrofiche: vent’anni di guerra afgana conclusi con i talebani al potere, Iraq invaso con il risultato di rafforzare la presenza dell’Iran, Libia lasciata nel caos con spezzoni di comando conquistati da Russia e Turchia (e l’onta dell’ambasciatore Stevens ucciso nel consolato di Bengasi), Egitto ridato ai militari dopo il breve e sanguinario regime della Fratellanza, Siria immersa in una tragica guerra civile vinta da Assad e Putin.

Diversamente dal primo, il secondo obiettivo ottiene buoni successi, ma paga prezzi elevati. La presidenza Clinton offre alla Cina una via d’accesso privilegiata al mercato mondiale (ingresso Wto nel 2001): le società finanziarie ottengono un nuovo campo d’azione (Pechino acquista a man bassa debito pubblico Usa), i consumatori americani trovano a domicilio una valanga di prodotti a basso prezzo, l’inflazione resta ferma. In sincrono scoppia il boom delle delocalizzazioni: le imprese trasportano le produzioni in Paesi dove il lavoro costa poco (Cina), espandono gli utili e scoprono mercati ricettivi. La globalizzazione decolla e i produttori più forti, high tech in testa, acquistano in fretta dimensioni mondiali. Le due presidenze che seguono Clinton, Bush jr. e Obama, assecondano la tendenza, ma tralasciano il rovescio della medaglia. La Cina, sfruttando condizioni produttive e commerciali ipervantaggiose, diventa una grande potenza ma solo l’esasperato nazionalismo di Xi Jinping, che punta al primato mondiale, fa vedere il pericolo. Anche le delocalizzazioni, dopo l’entusiasmo per i benefici di bilancio, generano un’impaurita percezione dei costi: in Asia competitor, che hanno appreso da chi delocalizza tecnologia e modi di gestione, sviluppano a bassi costi svariate produzioni, mentre in Occidente cala l’occupazione e cresce il malcontento.

Gli errori dei presidenti Usa

La longeva cecità davanti ai danni sociali e politici causati dall’azione di tre presidenti è anch’essa un prodotto dell’ideologia: si crede che il mercato, prima o poi, porti la democrazia, che i successi economici rendano marginale la politica, che il trionfo liberale – finito il comunismo – sia inevitabile e segni la fine della storia. L’idea è del tutto fallace e oscura la visione della vita sociale: il successo dei mercati è pagato dal dissesto civile. Ne derivano danni strategici: caduta di credibilità con alleati e Paesi neutrali, messaggi sbagliati trasmessi agli avversari, terrorismo incoraggiato. La visione idealistica dei democratici, di cui è tributario anche Bush jr. guidato dal pensiero neo-con che origina a sinistra, ha l’effetto di uno smarrimento collettivo che colpisce senza antidoti – l’Europa non elabora posizioni autonome – l’Occidente e favorisce l’espansione politica di Stati autoritari (Cina, Russia, Turchia). Occorre un outsider realista come Trump, che rappresenta i perdenti del mercato globale, per cambiare rotta: la Cina è finalmente identificata come avversario strategico, in Medio Oriente finisce lo sbandamento ed emerge una visione creativa che incentiva l’alleanza stabilizzante fra Israele e monarchie arabe (accordi di Abramo), è avviata l’uscita da teatri di guerra ormai privi di valore cruciale. Biden adotta la linea di Trump, dimenticando la demonizzazione fatta in campagna elettorale, e chiude nei fatti il quarto di secolo dell’idealismo democratico: purtroppo l’esecuzione si rivela un disastro e aggiunge guai a quelli già accumulati.

Le tre incognite sul futuro: cosa succederà?

Archiviata un’epoca infelice, si apre una stagione dove dominano le incognite. A un primo sguardo ne appaiono tre principali. Le democrazie sono divise: gli Stati Uniti hanno perso credibilità, i loro alleati non si fidano, crescono le spinte, anche velleitarie, per sviluppare politiche autonome. La Cina è per gli americani un antagonista pericoloso in una sfida politica mondiale, ma per vincere gli alleati sono essenziali e gli europei, già svogliati e ora motivati nella diffidenza, non vogliono rinunciare a Pechino, fondamentale partner commerciale: si intravvede un periodo di aspri confronti. Persa l’idea di esportare la democrazia e di fare la guerra al terrorismo, le democrazie restano orfane di una visione che faccia da bussola nella contingenza della politica internazionale: di fronte a Stati autoritari, che invece seguono una rotta ben definita, è un handicap pesante. A rischio sono soprattutto le nazioni dell’Europa che, oltre alla promozione accanita dell’export, non sembrano avere una percezione chiara e condivisa della congiuntura mondiale e dei suoi pericoli.

Antonio Pilati, 15 settembre 2021

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