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Le due (inspiegabili) cantonate di Zingaretti

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In questa crisi di governo spicca, per inspiegabilità, il comportamento del Partito democratico. Per la seconda volta in un anno e mezzo, la compagine guidata da Nicola Zingaretti avrebbe avuto la possibilità di liquidare il suo acerrimo nemico e guastafeste, Matteo Renzi. Per la seconda volta, sta sprecando questa finestra di opportunità.

Il precedente capitolo della saga, com’è noto, risale alla formazione del governo giallorosso. Esisteva una sorta di gentlemen’s agreement tra Zingaretti e Matteo Salvini: tornando al voto, la Lega avrebbe massimizzato i consensi e il segretario dem avrebbe purgato le liste dalle pattuglie renziane. La mossa del cavallo fece saltare il banco. Il successo strategico, poi, galvanizzò il senatore semplice, che con la fondazione di Italia viva sembrava aver compiuto un azzardo: nei sondaggi, il suo è un partito agonizzante, per non parlare della considerazione di cui gode la sua figura presso l’opinione pubblica. Eppure, a gennaio 2021, siamo punto e a capo. Renzi, che pareva nuovamente stretto in una tenaglia, potrebbe riuscire un’altra volta vivo e vegeto dallo stallo alla messicana.

La chance di eliminare Renzi

Era chiaro che la crociata contro Giuseppe Conte l’avesse intrapresa con il beneplacito del Pd. Poi, Zingaretti deve aver fiutato l’occasione di prendere due piccioni con una fava: ridimensionare il protagonismo del premier e ridurre all’obbedienza il capo di Iv, o addirittura metterlo fuori gioco con l’operazione responsabili. Sullo sfondo, l’opzione urne: i dem avrebbero, sì, perso il governo, ma avrebbero posto fine alla faida che sconquassa il centrosinistra, battezzando quell’Ulivo 2.0, a trazione Pd, con dentro Leu e grillini e senza Renzi (ma con i renziani), che rappresenta il principale obiettivo politico di Zingaretti. Il progetto, nondimeno, sta evaporando.

Morire contiani

Il presidente della Regione Lazio ha scelto inspiegabilmente di morire contiano. E dire che, nel suo schieramento, non c’è affatto identità di vedute sulla prospettiva di collegare intimamente i destini del partito a quelli dell’avvocato pugliese. A meno che l’idea di Zinga non sia quella di cooptarlo e farne il prossimo frontman del Pd, quest’amore incondizionato per il re del trasformismo, per l’uomo che bloccava le navi Ong insieme a Salvini e brandiva in conferenza stampa i cartellini sul decreto Sicurezza, risulta davvero misterioso. Possibile che per la classe dirigente dem sia più importante restare aggreppiata al potere, che sciogliere certi nodi, anzi, certi cappi politici, magari correndo il rischio di riandare al voto?

Tornare all’opposizione?

In fondo, la situazione del Pd non è come quella di Iv: Renzi, al consenso, è costretto a sostituire i giochi di palazzo, le relazioni internazionali (inclusi gli incesti con gli autocrati come Mohammed Bin Salman), l’occupazione delle partecipate. Il Pd, rispetto al 2018, ha invece guadagnato diversi punti percentuali. Certo, con il taglio dei parlamentari, perderebbe un certo numero di seggi. Uno scenario che alimenta indubbiamente malcontenti e resistenze tra gli onorevoli. Tuttavia, è plausibile che rimanere all’opposizione, specialmente con un centrodestra che non sembra così preparato alla sfida del governo e che avrebbe contro l’Europa, i giudici e i media, ridarebbe al Pd un po’ di vigore (com’è accaduto nell’anno di esecutivo Lega-5 stelle). In più, i dem contano su una scorta inesauribile di entrature nei gangli dello Stato, nei giornali, nelle tv, a Bruxelles, adesso persino Oltreoceano, che non li lascerebbe certo disarmati.

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