Cultura, tv e spettacoli

Maneskin in crisi, non credete alla truffa dei narcisi

Dopo il successo a Sanremo e all’Eurovision, adesso il gruppo sembra vivere un momento davvero difficile

© PinkBadger tramite Canva.com

Il mio intervento sui Maneskin, miraggio di artista, ha scatenato i desideranti, i vorrei ma non posso che mi accusano di volere e non potere: “Come rosiki, ah giornalista, dev’essere brutto non scopare mai”. Vado a vedere, allettato dalla faccia che è tutto un programma, e c’è uno col profilo pieno di donne nude. È sempre così: non andargli contropelo a quelli che non hanno altro, non rovinargli il miraggio. “Ma cosa ti hanno fatto quei 4 poveri ragazzi?”. Così poveri che i poveri veri li prendono in giro, a milioni, da anni. Ma è sempre così e bisogna capire.

Solo che anche i più agguerriti non sanno andare oltre l’invettiva sessuale o il computo commerciale e pubblicitario, “hanno fatto 9 miliardi di visualizzazioni e osi criticarli?”. Un soldino per ogni visualizzazione e passa la paura. Ma tutte le visualizzazioni del mondo non potranno risparmiare la fine che era già inscritta nell’inizio, la deflagrazione del nulla. È “la grande truffa del rock and roll”, come dicevano i Sex Pistols, che c’è sempre stata e sempre si rinnova: solo, con presupposti qualitativi sempre più evanescenti. Nella truffa che contiene una truffa che contiene una truffa, si vedono cose anche surreali come l’altra, la Taylor Swift, considerata capace di spostare le elezioni americane, un affare elettorale da 10 miliardi di dollari essendo la democrazia, come insegnano a scuola, “il potere del popolo”. E la sostengono i magnati e i magnaccia della tecnologia del controllo e dello spettacolo.

Questa truffa a Matrioska dalle dimensioni globali ha bisogno di covare sempre nuovi inganni, uno dentro l’altro, per potersi reggere: uno dei più infidi è la depressione assurta a fenomeno di costume e a moda esistenziale. Non sei artista se non sei depresso e la depressione è la carta d’identità dell’artista. Anche questi ragazzini Maneskin ci hanno scialato: la bassista con i bollini sulle tette ci ha fatto sapere che patisce l’horror vacui, “devo andare a tre o quattro feste ogni sera se no mi fermo a pensare e mi viene la depressione”. Il ragazzo Damiano ha avuto le sue angosce, probabilmente legate alla scelta, mai facile, del reggicalze, mentre una sua ex fidanzata in fama di attivista si è ritagliata una qualche notorietà, evaporata non appena sostituita dal divetto, insistendo in modo ossessivo sulle sue malinconie, peraltro non precisate. Forse derivavano dal numero di follower, improponibile rispetto alle colleghe più quotate.

Tutti depressi, tutti non attrezzati per la gloria: povere stelline di carta, questi Maneskin come le meteore dei Santi Francesi, una coppia di pinguini che si trovavano molto belli e sono finiti, ci informano, in analisi, stremati dal quasi successo. O l’esordiente Sangiovanni che dopo un primo Sanremo ha sentito l’imponderabile pesantezza dell’essere, anche se non si è mai capito cosa; uno schema fisso, che desta qualche sospetto. Quanto al più stagionato Kekko dei Modà una mattina si alza e si sente le gambe di gelatina, lo svuotamento del vivere e convoca i giornalisti: mi ritiro, per un po’.

In America un’altra di queste adolescenti col microfono, tale Billie Eilish, celebre per le imponenti poppe mostrate in tutte le direzioni, ha rivelato un ventaglio di disturbi depressivi, pare risolti felicemente “scoprendomi fluida”. E certo, e che sennò? Trattasi, come si diceva, di truffa nella truffa, salvo casi conclamati, e di quella più ignobile perché tesa a strumentalizzare il disagio giovanile che praticamente ogni adolescente patisce. Insomma un modo cinico per fare soldi mandando il messaggio perverso: io sono come te, siamo specchi nel dolore. Va bene, io giro in jet privato, ho tutto il sesso e le droghe che voglio, ho una corte di servitori e di intrattenitori che se non soddisfano in tempo reale qualsiasi mio capriccio ci rimettono il posto, sono carogna, presuntuoso, pretendo il mondo ai miei piedi, però, a parte questo, noi siamo uguali: comprami, consumami.

Ragazzine e ragazzini non cascateci. Insultate me, se volete, ma per l’amor di Dio non finite per identificarvi con simili vampiri. Mentono e lo fanno nel modo più cinico a costo di convincervi di essere davvero malati. Tanto per cominciare, chi è realmente depresso tutto fa tranne che sbandierarlo. Con la depressione uno si nasconde, si vergogna, non ha la forza di vivere, di respirare, è una nuvola scura che non ti dà tregua. Men che meno si ha voglia di condividerla. Ci sono, chi lo nega?, artisti divorati da questo cancro dell’anima, ma di solito finiscono nelle spirali dell’autodistruzione, come le mille rockstar, da Kurt Cobain ad Amy Winehouse passando per Layne Staley, o nelle sabbie mobili di un oblio che si spegne nel suicidio, ed è il caso di Nick Drake, di Jeff Buckley. Gente che, solo a sentire una canzone, si capiva come sarebbe finita.

Questi no. Questi sono semplicemente dei narcisi, petulanti, rosi, sì, ma da una condizione schizofrenica: la preoccupazione che la loro pochezza venga svelata e insieme la speranza che questo accada, in modo catartico, così da non doversi più macerare nell’inganno. Insomma non valgono niente, sono dei bluff e lo sanno. Artista uguale dilaniato, tormentato: ma questi non sono artisti, sono influencer che si sono dati a quel succedaneo di musica che usa oggi, secondo la filosofia del “fin che dura, dura”. Ma non dura, da cui le false ambasce, in qualche modo preventive, per mettere le mani avanti. Un artista si consuma per uscire fuori, non perché, più meno, ce l’ha fatta. Un artista non penserà mai di ritirarsi, a maggior ragione dopo un paio di stagioni. Artista è una benedizione da scontare, se ce l’hai te la tieni, se lo sei ci convivi e vai avanti. Per rispetto di te stesso e del pubblico. Stanchi, spremuti, disperati dopo un disco o un tour di relativo successo, di modesto successo? Scusate: ma negli anni ‘60 c’erano ragazzini di 20 anni chiamati Rolling Stones che alla loro età erano già fenomeni globali e due anni dopo si ritrovavano tossicodipendenti integrali.

Perché quando devi farti mille chilometri e due concerti al giorno, tenerti su in tutti i modi, sempre meno leciti, diventa una necessità, diventa parte del lavoro e l’unica vita possibile. E ci lasci le penne, perché ti immoli alla gigantesca dimensione che sei e non la reggi. Hanno seminato morti sul cammino, hanno camminato tutta la vita in braccio alla morte, ma non hanno mai pensato di mollare. “Che cazzo dovremmo fare? Aprire una palestra?”. È il blues (che vuol dire tristezza, vuol dire dannazione e depressione) come ragione e dimensione di vita e di morte, che travalica tutto, la ricchezza, la fama, la depravazione, il nichilismo paranoide. A Keith Richards appena prima di un concerto dicono che suo figlio, di appena dieci settimane, è morto per una febbre virale e lui resta in camerino due ore, indeciso se spararsi un colpo in testa o salire sul palco. Si imbottisce di droga in dose suicida e suonerà tutta la notte piangendo, il cinico, indistruttibile chitarrista. Poi lo scortano giù dal palco, non lo mollano, preoccupati che possa uccidere se stesso o il primo che si trova davanti.

Sono durati, per il momento, 62 anni i Rolling Stones, attraversando trionfi e rovine indicibili, ma mai la tentazione di smettere. Un rifiuto ribadito, su basi esistenziali del tutto diverse, da Renato Zero per tutta la sua carriera, tuttora al massimo livello. Eppure anche per lui non è stato facile. Non è mai stato facile. Uomo sensibile, atipico, esposto alle correnti del fanatismo e dell’incomprensione, bisognoso del respiro del suo pubblico, amato e riamato più di una persona fisica, Renato, dopo una gavetta furibonda, sbatte a 27 anni contro un successo psicotico; sette anni dopo, ancora giovane, incappa in una crisi personale ed artistica mai del tutto chiarita: gli chiudono il tendone di Zerolandia, gli chiudono le porte, i giornali, dopo averlo incensato, prendono ad attaccarlo, a ferirlo nei modi più meschini. L’insuccesso si autoalimenta, giustifica se stesso, il fallimento legittima ogni crudeltà sulla vittima sacrificale.

Dieci anni di disperazione pura, di boicottaggi, ma “mai il pensiero di un addio”. Anzi sforna dischi sempre più ambiziosi, azzardati, perfino refrattari alle lusinghe del mercato: o ostentatamente rètro, come il doppio “Zero” del 1987, o di sonorità anticipate come “Voyeur” di due anni dopo. Lavori non capiti, snobbati, eppure c’era un artista che non ingannava il pubblico, che lo aspettava ancora ma senza scendere a compromessi. Dettando condizioni solo sue. Canterà anche, con sincerità dolente, imbarazzante, la depressione vera di chi si ritrova rinnegato, radioattivo: “Accade che più avanti vai e più ti senti solo… ovunque va quell’entusiasmo incontra aridità… Accade che incontra il buio la fede, che più nessuno ti crede…”. E la depressione c’era, e non per modo di dire: molti non dimenticheranno un concerto estemporaneo, di strada, fuori dalla discoteca Green Leaves di Porto Recanati, oggi scomparsa, alla presenza di pochi esterrefatti passanti trovatisi a condividere la disperazione, umile e selvaggia, di un uomo, un artista che non capiva, che non poteva accettare tutto quel dolore ingiusto. Quelle discriminazioni assurde e misteriose.

Oggi quegli album restano, paradossalmente, a testimonianza della fase forse più importante, più significativa non tanto sotto un profilo qualitativo quanto a memoria di un orgoglio commovente e sconfinato. Alla fine Zero ritroverà tutto il suo successo, perfino in dimensioni maggiori, ma da uomo ferito, cicatrizzato, capace di gestirlo (e di diffidarne). E lo ritrova solo e soltanto grazie all’incrollabile volontà, ad un coraggio inusitato: se non avesse creduto lui in se stesso, nessuno lo avrebbe fatto; nessuno gli avrebbe più concesso una ribalta. Ragazze, ragazzi, non cedete ai falsi profeti: vi ingannano e vi spremono, vi vogliono fragili, indifesi, sbandati come loro sostengono di essere. Perché chi non ha più risorse è più facilmente manipolabile, lo controlli meglio, è un manichino che non cresce più. Se proprio dovete stare male, fatelo almeno da incazzati. Urlate, ribellatevi, finché la nube tossica va via. Non siete i soli. E non dovete nessun dolore a nessuno, mentre dovete tutto l’amore a voi stessi: se c’è un insegnamento da artisti veri, totali, come Renato, o, in un diverso, ma neanche poi tanto, approccio esistenziale, i Rolling Stones, è definitivamente questo.

Non rinunciate alla dignità della vita. La vostra vita. Non arrendetevi ad una emulazione maligna, ad una sirena puttana. Sceglieteli meglio i vostri miti o meglio fatevi scegliere da quelli giusti. E siate voi, soltanto voi. Chi vi dice “tu sei come me” e ti propone la rassegnazione, vi sta fottendo. Chi vi dà in pasto la sua depressione non è depresso, è solo un paraculo che vi sta puntando. Mandatemi affanculo, se vi fa stare meglio, se vi ho rotto il giocattolo, ma lasciatevi contagiare dal coraggio di chi non si arrende. E lasciate perdere le visualizzazioni, che con l’arte c’entrano come amare un poster al posto di un/a partner.

Max Del Papa, 23 luglio 2024

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