Cronaca

No, Michela Murgia non merita una via

Scintille tra i candidati sardi sull’intitolare una piazza o una strada alla scrittrice scomparsa sei mesi fa

© Mouse Family tramite Canva.com

Una via a Michela Murgia: giusto? Sbagliato? Domanda inutile ovvero fuorviante, dirottatrice di tutt’altre questioni e comprensioni: intanto sarebbe sbagliato per la scadenza, Murgia essendo deceduta da sei mesi appena, non dieci anni e va bene che ormai il tempo, questo tempo sfrangiato ha fretta, non ha tempo, non lascia decantare, è un tempo influencer da tutto e subito. Ma domanda priva di senso, di risposta anzitutto per il sussunto: trattasi di mera schermaglia elettorale, sulla pelle di una figura controversa che, in un certo senso, sconta, postuma, la sua Nemesi.

È stato il sindaco cagliaritano e candidato, dopo faida interna al centrodestra, alle Regionali, Paolo Truzzu, ad aprire le danze in modo un po’ truzzo, rozzo: non le dedicherei mai una strada perché era totalitaria. Truzzu si esprime con l’approssimazione lessicale, culturale degli amministratori attuali, probabilmente voleva dire: divisiva, e non c’è dubbio che Murgia lo fosse, che questo cercasse; per la stessa ragione una candidata grillina del centrosinistra, tale insospettata Alessandra Todde, si sdegna e s’indigna, forse non con gran dignità. Un atto automatico, di facciata, siamo in campagna, elettorale dunque diamoci da fare.

Ma Murgia non fu una intellettuale, se non di grana grossissima: se mai una provocatrice, una militante col gusto della prepotenza fanatica come ce l’hanno gli infantili, quelli che tagliano via con l’accetta e non si confrontano che con loro stessi. Non intellettuale perché non scandalosa in senso pasoliniano, se mai organica, zdanoviana, tutta immersa nell’ideologia dominante, il woke che riscrive la verità a colpi di interpunzioni, di asterischi, di trovate puerili, le vocali rovesciate, le matrie, la famiglia queer, l’intolleranza gender, la rabbia violenta per zittire l’altro, il vittimismo organizzato. Murgia non è mai andata contro nessun potere costituito e il potere costituito l’ha premiata oltre i meriti, che erano modestissimi.

Nei tempi dell’assurdo osceno regime concentrazionario, che segregava un Paese, lei era per le misure liberticide; imponevano vaccini come minimo spericolati con i ricatti più odiosi e spregiudicati, e questa libertaria pro domo era per l’imposizione sbirresca al di fuori della Costituzione. È morta in modo tragico, il che garantisce imperitura dimensione martirologica, ma di lei resterà una sostanza culturalmente evanescente: che poi è quella a dimensione del còte grillopiddino, fumettistico, Zerocalcare, Gino Cecchettin, Soumahoro e Ghali nel pollaioh, figure pop come la cacciatrice di “nazisti”, Ilaria Salis, candidata dall’eterno rieccolo Michele Santoro in una lista di pacifisti senza riserve, ma con parecchia intolleranza.

Ma qui le code di paglia s’intrecciano in verità, intrecciano il loro frusciare in una danza sconcertante. C’era poi bisogno dell’uscita, a sua volta provocatoria, inutilmente provocatoria, del candidato di destra? Non hanno qualcosa d’altro, per cui volare alto? No, non ce l’hanno. La destra di potere corre dietro ai simboli della sottocultura mercantile di sinistra per definire una propria identità. Con il che il discorso sulla targa murgiesca si potrebbe anche chiudere. C’è un vuoto di prospettive allo specchio: a sinistra, rinnegata ogni velleità problematica, sono implosi nel pensiero fragilissimo e feroce da centro sociale, gente che caga nelle fontane e ingiuria i capolavori si direbbe per una sorta di odio edipico; a destra o implodono nelle sacre memorie, fosche, decrepite, o non sanno che altro trovare, nemmeno lo cercano.

A questo gioco, la sinistra sarà sempre vincente perché prodiga di falsi miti, cartonati, ma sfornati a getto continuo: si chiama egemonia gramsciana, società dello spettacolo, che è sempre al 100% di sinistra anche quando i protagonisti sono dell’altera pars. Per dire, la sinistra arriva a scippare Tolkien, il kulturpessimismus, Freud e Skinner, gli eretici alla Carmelo Bene, fino a Chiara Ferragni che è o era una vestale del postliberismo avido e istantaneo, miraggi ed elusione fiscale legale con lo stuolo di fiscalisti al seguito. Il marito Fedez, il rapper da Orietta Berti, a capo di un intrico di società che fatturano una ventina di milioni l’anno, è andato dal giudice a definirsi nullatenente. “Tecnicamente lo sono”.

Ferragni era in predicato di candidarsi col Pd, non fossero scoppiati i pandori, il marito pendeva per i 5 Stelle e invitava il giudice mito dei grillini, il Robespierre di Candia Lomellina, Piercamillo Davigo. Lo stesso per i Gino Cecchettin e i Ghali, come i Geolier, che nei loro tweet più o meno rimossi tradiscono sensibilità e pregiudizi diametralmente opposti, che la sinistra ufficiale non avrebbe esitato a fulminare in fama di decadentismo borghese mentre la attuale li riscatta, li contestualizza, li avvolge, ne fa testimonial della propria irrilevanza pop, cromatica, estetica.

Michela Murgia non merita una via per la propria consistenza culturale, ma a questo punto non merita neppure l’osceno balletto dell’impiccata che una politica autoreferenziale e a corto di argomenti imbastisce sulla sua salma. La lasciassero stare, anche se lei per tutta la vita, disperatamente, tragicamente, non ha mai lasciato stare nessuno. Nemmeno se stessa.

Max Del Papa, 15 febbraio 2024

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