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Non solo Craxi: quando il leader è estromesso con la forza

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Tempo di anniversari, tempo di riflessioni: sono passati 50 anni da Piazza Fontana, le cui indagini – denuncia il giudice Salvini – hanno subito gravi sviamenti, 20 anni dalla morte di Craxi, che hanno portato significativi cambiamenti nel giudizio dell’opinione pubblica, e tra poche settimane si compiranno 42 anni dal rapimento di Aldo Moro. Nell’occasione forse è utile ripensare ad alcuni singolari – ma soprattutto drammatici – primati della recente storia italiana. Da noi non solo si è sviluppato, dal 1969 al 2002, il più violento e duraturo terrorismo mai vissuto in Europa e non legato a scontri civili (come nei Paesi Baschi e nell’Irlanda del Nord), ma anche sono stati estromessi dalla scena politica con mezzi forzosi (omicidi, azioni giudiziarie) i cinque leader forse più importanti emersi nel periodo.

Enrico Mattei è ucciso il 27 ottobre 1962 a Bascapé (Pavia) dall’esplosione del suo aereo partito da Catania e probabilmente manomesso. Mattei è il costruttore dell’Eni, che terremota il mondo chiuso e feroce del petrolio offrendo condizioni di favore ai Paesi produttori (Usa e Francia non ne sono felici), l’architetto dell’industria pubblica usata anche per finanziare e stabilizzare i partiti politici, il fondatore della sinistra di Base, la corrente forse più creativa della Dc. Aldo Moro, il teorico dell’accordo fra Dc e Pci, è rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978, giorno in cui il nuovo governo Andreotti (monocolore) si presentava alle Camere per ottenere la fiducia (accordata, per la prima volta dal 1947, anche dai comunisti).

Il 12 maggio 1994, in seguito all’inchiesta Mani Pulite, viene ritirato il passaporto a Bettino Craxi (già espatriato in Tunisia): l’ex presidente del Consiglio socialista, che negli anni 80 crea la prima vera alternativa politica alla Dc, diventa così per lo Stato italiano un latitante. Nel 1993 Giulio Andreotti, quattro volte presidente del Consiglio, è fatto oggetto di due diverse indagini giudiziarie, una per associazione mafiosa e una per l’omicidio Pecorelli: entrambe portano a processi conclusi con assoluzioni in Cassazione. Il 27 novembre 2013 Silvio Berlusconi, quattro volte presidente del Consiglio, è dichiarato decaduto da senatore in seguito a una condanna per frode fiscale confermata in Cassazione il 1° agosto.

È difficile trovare nel periodo compreso tra la fine del miracolo economico e il tramonto della Seconda Repubblica – entro il quale peraltro si snoda l’intera vicenda del terrorismo – uomini politici più influenti e incisivi sulla vita della società italiana. È anche difficile trovare in altri Paesi europei una simile sequenza di tragedie politiche. La ragione sta forse nella congenita debolezza dello Stato italiano dovuta a peculiari circostanze storiche (unificazione fatta dalle élite ed estranea per molti decenni ai ceti popolari, classi dirigenti attente più al proprio particulare che agli interessi generali) e politiche (avventurismo estero della dittatura fascista, presenza dal 1946 della più forte filiale di Mosca in Occidente).

Durante la guerra fredda tutto ciò, soprattutto nelle fasi di tensione, abilita potenze più forti a usare la fragile e vulnerabile Italia come terreno sgombro di ostacoli per i propri scontri, coperti o meno, lasciando alla fine residui velenosi: terrorismo, fratture politiche consolidate dall’esterno, inflazione e debito pubblico (entrambi strumenti di acquisizione del consenso e di lotta partitica). Per affrontare queste emergenze – e i problemi strutturali che le sottendono – i partiti, in crisi ideologica e in deficit di credibilità, cedono poteri: ai magistrati per la lotta al terrorismo prima e alla mafia poi; alle autorità dell’Unione Europea per ambiti essenziali dell’economia. La politica così continua a indebolirsi e lo Stato, alla lunga, logora le sue forze.

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