Per un pugno di tweet. Quando la sinistra è più uguale degli altri

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Non twittare, o retwittare o mettere un like: il nemico ti legge. È la massima di questi tempi, tanto che non passa giorno che di qualcuno non sia chiesto il licenziamento, o che finisca cacciato, per un parere personale espresso sui social, magari molto tempo prima.

Proprio ieri abbiamo visto il caso del giornalista del Tg2, Luca Salerno, reo di aver retwittato una vignetta ritraente l’evoluzione della sinistra, dagli operai militanti di inizio Novecento al Gay Pride. E, poche ore dopo, abbiamo letto della cacciata di un professore in pensione di un liceo di Pavia da presidente di commissione d’esame di maturità, colpevole di alcuni commenti sugli immigrati non proprio politicamente corretti.

Sono ovviamente due casi diversi. Nel primo possiamo capire le ragioni del direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, che si è dissociato: condurre un Tg della rete pubblica implica forse doveri supplementari, anche se la vignetta non era omofoba, e ha fatto sorridere diversi amici gay di sinistra (ma spiritosi e di sinistra è ormai merce rara). Nel secondo caso, alcuni giudizi del professore in pensione erano forse un po’ hard. Resta il fatto che entrambi si sono espressi al di fuori del Tg nel primo caso e delle classi nel secondo: non è libera opinione?

Queste vicende ci portano a tre ordini di riflessione.

1. La prima è che se regole «deontologiche» devono esserci, che valgano per tutti. Mentre al solito, quelli di sinistra sono più uguali degli altri. Alcuni giornalisti Rai possono, ad esempio, postare persino vignette con Salvini appeso a testa giù, e nessuno fiata. Mentre professori di sinistra possono tranquillamente definire razzisti e fascisti i leghisti, farlo persino in classe, e organizzare ricerche in cui «liberamente» gli studenti giungerebbero a capire il razzismo del ministro dell’interno: e può accadere a questi docenti persino di essere ricevuti a Palazzo Madama da alcune senatrici a vita.

Il meccanismo è il seguente. Se a twittare o a postare è uno di sinistra, a dare la notizia può essere questo sito (come ieri ha fatto meritoriamente Francesco Giubilei sul caso del sindaco di San Mauro Pascoli in Romagna), o alcuni giornali, la Verità, LIbero, il Giornale. Se a postare è invece qualcuno non protetto dalla sinistra, parte la corazzata delle associazioni Lgbt o anti fasciste o vattelappesca, il tutto viene ripreso dai siti dei giornaloni, per poi lasciare il proscenio a roboanti dichiarazioni di deputati piddini, per finire nei casi più seri con la mobilitazioni dei « cittadini », in realtà dei centri sociali.

2. Il secondo ordine di riflessione riguarda la strategia usata dai nuovi cacciatori di streghe del politicamente corretto, o, come si dice oggi, del virtue signalling. I nuovi inquisitori non affermano che vogliono privarti della parola e della libertà che, non sia mai, è « sacra ». Ti vogliono far tacere perché avresti usato espressioni d’odio. La parola magica è fobia: se critichi l’islam, sarai islamofobo, se ironizzi sulla strumentalizzazione politica dell’omosessualità, sarai omofobo, se discuti l’immigrazione clandestina sari xenofobo, e così via. L’uso di tale suffisso, ennesimo pessimo prodotto dell’americanismo deteriore, è finalizzato a delegittimare l’altro, trattandolo da pazzo: la fobia infatti è sempre una forma di malattia mentale. E a un malato di mente non si può lasciare libertà di parola: come dicevano anche nella Russia di Breznev

3. Il terzo ordine di riflessione riguarda più in generale i social. Finché queste opinioni erano espresse oralmente, di fronte a quattro amici, nessuno si preoccupava. Tanto i padroni della opinione pubblica restavano loro, i direttori dei giornali mainstream e dei programmi tv, che decidevano cosa far passare e cosa no.

Ma con la straordinaria invenzione dei social, la democrazia è finalmente entrata anche nell’informazione: e un post o un tw possono essere mediamente più letti di un editoriale del Corriere della sera (e in molti casi sono anche meglio scritti). Cosa che manda ai matti i mandarini degli old media, che reagiscono invocando non solo la cacciata di questo o di quel frequentatore di social (purché non sia di sinistra, è ovvio) ma il bavaglio nei confronti del web. Con la scusa che i social minerebbero la democrazia (una tesi peraltro assai discutibile), per salvare la democrazia si chiede di mettere fuori legge la libertà di parola e di opinione.

Ma cosi come in politica è finita l’era dei guardiani della democrazia, cioè dei tecnici, cosi nella società è finita l’epoca dei padroni delle notizie. Prima questi se ne renderanno conto, e si adegueranno, e meglio sarà: soprattutto per loro.

Marco Gervasoni, 12 giugno 2019

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