L'exploit di FdI

Perché Giorgia Meloni ha vinto

Dagli anni ’70 al fallimento della sinistra: perché la leader FdI ha trionfato alle ultime politiche

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Da quando Giorgia Meloni ha vinto le elezioni, è ricominciata la solita solfa del Pantheon della destra, che palle! Che noiosa perdita di tempo: possibile che non si capisca che Giorgia Meloni è nata nel 1977 e che quando nel 1994 Berlusconi si candidò, immaginando per la prima volta un centrodestra di governo, lei aveva 17 anni e ancora non votava.

La leader di FdI è figlia degli anni ‘90, della destra di governo, dell’Unione Europea, dei primi voli low cost introdotti nel ‘91 dalla Ryanair, della musica Mp3, del fascismo “male assoluto” pronunciato da Fini nel 2003. Certo, tireranno fuori Battisti con l’esegesi dei suoi “boschi di braccia tese”, i campi Hobbit, Frodo e Sam e qualche scemo che avrà la voglia di arrivare a Wikipedia proporrà dotte citazioni di Mishima, Stirner o Codreanu.

Generazione Meloni

In realtà, le uniche citazioni sono state quelle tolkieniane della Meloni e di sua sorella, perché rappresentano al meglio il rifiuto di quella cappa di conformismo di sinistra che ancora oggi avvelena i pozzi della politica; perché quella di Tolkien era l’epica di chi era escluso dall’epica ufficiale, era qualcosa da contrapporre alla cultura egemonizzata dalla sinistra, era una religione laica alla quale aggrapparsi e per la quale il senso dell’onore, il coraggio, l’appartenenza ad una comunità definita, la fratellanza, avevano un senso.

La sfida della generazione Meloni è stata far sì che questi valori potessero essere trasposti in una pacifica offerta politica, superando gli errori delle generazioni precedenti ancora ancorate al frontismo ed alla violenza.

Violenza rossa

Il problema sono quelli come me che nel ‘77 erano al liceo, ed entrando a scuola sui muri leggevano senza sorprendersi: “Dieci, cento, mille Acca Larentia. Fascisti carogne tornate nelle fogne; uccidere un fascista non è reato; la resistenza ce l’ha insegnato; pagherete caro, pagherete tutto”. Che quando sentivano parlare nelle assemblee di “antifascismo militante” giustificando l’odio, che poteva sfociare nella violenza fisica verso chi era tacciato di “fascismo”, si giravano dall’altra parte.

Certo, a destra rispondevano ma era più un rancoroso controcanto, la protagonista era la sinistra in tutte le sue articolazioni politiche, sociali, giornalistiche, culturali. Erano loro che dettavano lo spartito in una società conformista ed assuefatta, che era arrivata tranquillamente a dibattere sui quotidiani e le tv dei “compagni che sbagliano”, senza condanne e giustificando qualunque cosa facessero.

In quella vecchia Italia degli anni ‘70 stava succedendo qualcosa di strano, senza che noi ce ne rendessimo conto. Di sicuro, la fantasia non era andata al potere, come proponeva un riuscito slogan sessantottino, ma di certo il potere per mantenersi era diventato molto fantasioso, arrivando al più alto grado di incomprensibilità e di progressiva distanza dai cittadini elettori.

L’errore della sinistra

Italo Calvino aveva definito questa metamorfosi culturale del potere come antilingua, ovvero un artificio capace di produrre chicche come gli “anni di piombo” o il “progresso nella continuità ” o il mitologico “convergenze parallele”. L’antilingua nella degenerazione contemporanea sarebbe stato il politichese, che ancora oggi sviluppa assurdità come il reddito di cittadinanza, l’abolizione della povertà, il governo dei migliori, insomma strumenti linguistici utili solo a fare dell’astensione il primo partito.

Questo linguaggio barocco, per finti addetti ai lavori, riflette esattamente quello che la generazione dei Renzi (1975) e Meloni (1977) rifuggono, mentre il Pd è diventato il paradigma di questa arte, grazie alla quale tutto può essere fatto mentre si afferma il suo contrario: affermiamo il diritto alla rappresentanza femminile nelle istituzioni mentre facciamo liste che le escludano in larga misura, riempiamo pagine con il campo largo per finire a vicolo stretto.

Questa doppiezza intrisa di moralismo è stata la condanna del PD in queste elezioni, ma viene da lontano, dal voler essere il partito Nazione depositario del bene, dal Berlinguerismo della “questione morale”, dai numerosi finti leader incapaci di rispettare la parola data anche solo un giorno, o rivolti ad un retorico attivismo di maniera utile solo a garantirsi la quota di potere gestita nelle amministrazioni.

L’errore della sinistra è stato credere che bastasse capovolgere il fascismo per avere il progresso, che bastasse essere il contrario del fascista immaginario per essere il democratico politicamente corretto. E mentre un elettorato sempre più fiaccato dalla noia ha votato PD, forse per l’ultima volta turandosi il naso; in milioni hanno votato non FdI, ma una giovane donna capace di parlare una lingua comprensibile dove parole come Nazione, rispetto, responsabilità hanno il significato che tutti gli attribuiamo e dove il rispetto della parola è un valore da coltivare.

La trasversalità, attraverso ogni ceto sociale, del voto a Giorgia Meloni e la nascita di un terzo polo liberale, saranno gli antidoti per provare a vivere in un’Italia, dove il Governo Meloni non sia uno scandalo, ma quello da battere fra 5 anni.

Antonio De Filippi, 4 ottobre 2022

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