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Perché il vanitoso Conte è destinato a scomparire

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“Giuseppi” come Calimero, piccolo e nero. Nero di rabbia perché nell’agenda di giugno aveva segnato una bella gita in Cornovaglia con il debuttante Joe per il G7 e “vertice Nato” insieme, tra gli altri, Angela, Ursula e all’autobiografico Rocco. Si è ritrovato, invece, con una pizza doppia mozzarella “da Michele” a Forcella con la fascinosa consigliera regionale grillina Valeria Ciarambino. Piccolo perché nonostante il nodo degli iscritti al movimento sia sciolto, i sondaggi non lo premiano affatto. Allora la nostalgia dei tempi andati lo assale, il pensiero degli Stati Generali di un anno fa, organizzati in pompa magna attorno al premier-Sole dal gran maestro di cerimonie Casalino lo intristisce.

La sindrome di Propp

Sembra gli si addica perfettamente la sindrome di Propp, uno studioso russo dei riti di iniziazione e delle origini delle fiabe nelle società tribali, in cui i personaggi sono coltivatori di buoni propositi, quasi mai realizzati. L’ex Premier da tempo sta cercando di costruirsi un’immagine fuori dagli schemi, che rassicuri e stupisca, appunto, come in una fiaba. Gli è riuscito per un po’, ma poi l’incantesimo si è spezzato perché la sua immagine si è ormai indelebilmente legata al periodo più cupo nella storia del nostro Dopoguerra, quando dalle sue conferenze improvvise a reti unificate e in diretta social gli italiani aspettavano con ansia di conoscere il proprio destino, su cosa fosse “consentito” e cosa no. E ancora oggi vive un continuo conflitto di personalità, quasi fisico: da un lato, la formichina laboriosa nel piccolo ufficio che la sua premurosa fidanzata Olivia gli ha allestito “Chigi style” a pochi passi da piazza Colonna, dall’altro, il leader descamisado alla Peron che va incontro alle folle “Mastellate” nei vicoli di Napoli con la grancassa della propaganda Rai, finché c’è. Da avvocato degli italiani ad avvocato dei cinesi.

Stelle offuscate

Mentre era al governo, il fenomeno Conte brillava con il favore di tutte le stelle perché riusciva a mediare l’impossibile, facendo ricadere le colpe sui vari alleati che si sono avvicendati al suo fianco, da Salvini a Zingaretti, per non parlare di Grillo e Di Maio, che l’hanno sempre supportato. Ma ora che le stelle sono rimaste solo cinque, come l’Enrico IV di Pirandello, ha una piccola corte che lo venera e non fa che contare i fedelissimi in Parlamento, come il ministro dell’Agricoltura Patuanelli che gli preannuncia telefonate che non arrivano mai, a partire da quelle di Draghi, che forse si diverte a rendere la pariglia per non essere stato mai richiamato quando era lui l’inquilino del Palazzo.

Oltre a Patuanelli, altre cenerentole di quella stagione fatata: Stefano Buffagni, che non si è ancora ripreso, Paola Taverna, ma soprattutto l’ex Guardasigilli Bonafede. E proprio sulla giustizia fra pochi mesi s’infrangerà l’ultima fiaba di “Giuseppi”, quando sarà costretto a prendere una posizione netta sulla prescrizione e a decidere se fare del M5S un partito di centro, seguendo i consigli del guru Goffredo Bettini, oppure di sinistra, seguendo quelli dell’enfant terrible Andrea Orlando. In entrambi i casi, dovrà comunque abbozzare perché non ha la stoffa e la personalità per far cadere il Governo su un tema così dirompente e con una magistratura in frantumi che sta per far avverare la profezia di Cossiga, il quale affermava che “si arriverà ad una sacrosanta riforma della giustizia solo quando i Pm inizieranno ad arrestarsi tra loro”.

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