Perché la sconfitta in Emilia può far bene a Salvini

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Il referendum sulla persona, il taglio dei parlamentari, il proporzionale, il voto disgiunto, il voto frazionato, ponderato, comparato, per lista, per coalizione, le alchimie, i grovigli, gli scenari. La storia futura fatta con i “se”. Ma vogliamo usare il rasoio di Occam, vogliamo dire le cose come stanno, poche e chiare? Le cose stanno che in Emilia-Romagna non hanno voluto rischiare, hanno rifiutato la tabula rasa e riconfermato un mondo, un sistema. Fondato sulla tradizione di un curioso comunismo dei padroncini, tenuti insieme e tenuti a bada dal partito e dal sindacato, sul radicamento del potere, sul concime clientelare di settant’anni di monopolio amministrativo, ma tant’è. Le cose stanno che Bonaccini rimane dove sta, che la sua nomenklatura, insieme a quella nazionale del partito, tira un lungo sospiro di sollievo; assai meno Conte, che dovrà barcamenarsi come e più di prima, molto Mattarella che ha rischiato di dover offrire il suo peggio se chiamato a blindare un governo che comunque nei numeri, nelle proporzioni di forze, non esiste oltre: il movimento-setta di Grillo disciolto o meglio confluito nel partitone rosso, secondo vocazione primigenia.

Le Sardine decisive? Non esageriamo, le sardine sono i soliti agit prop, per dire gli elementi parassitari di tutte le epoche che, come in ogni epoca, passeranno subito all’incasso del servilismo e dell’inconsistenza. Le cose stanno anche che il presunto famigerato sistema Bibbiano continuerà “con più fame che pria”; perché la magistratura inquirente potrà anche accusare, portare prove, ma non è pensabile che poi la magistratura giudicante non prenda atto di un riscontro politico al quale, costituzionalmente, è sempre molto attenta.

Le cose stanno anche che Salvini ha messo paura al grumo di potere emiliano, ha incassato una barca di voti ma non gli è bastato e lui ha sbagliato quel poco o tanto che una certa differenza probabilmente l’ha fatta. Quello svarione della citofonata al presunto spacciatore tunisino! Perché è vero che in giro, segnatamente nelle periferie, nei quartieri degradati e invivibili l’esasperazione per irregolari e clandestini si taglia col coltello, ma a lungo andare satura anche l’ossessione per la mina vagante, per la presenza molesta, per il diverso che porta disagio e inquietudine.

Il populismo di Salvini c’è, ha funzionato, funziona su base leaderistica ma il leader della Lega dovrà porsi il modo, presto o tardi, ma più presto che tardi, di sviluppare una articolazione seria attorno a sé. La Lega non può essere solo lui, nei pregi e nei difetti e anche nel discorso con cui si è lealmente presentato a rendere l’onore delle armi, Salvini ha toccato le solite corde di un populismo melenso e un po’ logoro: l’Italia che è il paese più bello del mondo, i figli che non vede abbastanza, la stanchezza per il bene degli italiani, che si rinnova in ancora maggiore impegno. Sì, ma il treno emiliano e romagnolo è andato.

Che poi i 5 Stelle nella loro pazzia pretendessero di fagocitare il PD e invece si siano ritrovati divorati da questo, si siano ridotti a nutrire un partito talmente malmesso da sparire nella proiezione di Bonaccini, è vero; come è vero che una simile dinamica stabilizza a gioco breve il governo Giuseppi per minarlo in profondità, e come è vero che il partito post comunista, ancora un po’ comunista, reagirà alla maniera comunista di sempre; tutti rilievi veri, fondati ma ulteriori e allora ritorniamo al rasoio di Occam: Salvini aveva la sua occasione ma l’ha mancata e anche lui ne esce indebolito: se non a livello di coalizione, con la rampante Giorgia, Meloni, certo all’interno del partito coi veneti di Zaia, i lombardi di Fontana e in realtà di Maroni, che son lì a fare da tenaglia e se non la faranno subito è perché non conviene, ma sicuramente le ganasce cominceranno a muoverle. Quanto meno per far capire che il verticismo a lungo andare sfocia nell’implosione.

La differenza, volendo, sta in questo: che, a livello di segreterie, di partiti centrali Zingaretti non imparerà niente perché è politicamente inetto e perché glielo impedisce l’utilitarismo miope, spocchioso della sua tradizione. Mentre Salvini può, e se vuol durare deve, imparare a evolversi non solo nello stile comunicativo quanto nell’approccio strategico. Già è politico di lungo corso, ha avuto l’enorme merito di resuscitare un partito al 4 percento portandolo a proporzioni impensabili, quasi decuplicandolo. Ma in politica la gloria dura meno di un attimo e se a 47 anni non diventi uno statista non lo diventi più. Perché è con la solidità, con la credibilità che disinneschi i luoghi comuni di sinistra dell’antifà permanente, dell’odio attribuito, del razzismo pretestuoso. Non che il paese si sia risvegliato globalista ed europeista, malcontento e insofferenza sono lì, intatti, dalle Alpi a Capo Passero, in Emilia ha tremato ma retto un grumo radicato ma il governo centrale non risolverà il problema di una cittadinanza che non lo vuole, che lo sente estraneo fino all’usurpazione.

Sta di fatto che l’esito dell’attacco di Salvini si è risolto nel seguente bilancio: “è stata una cavalcata esaltante”. Quanto a dire la fatale mestizia di chi esce battuto. Eppure ci sono sconfitte più salutari di certi trionfi effimeri, basta saperle capire, basta saperle metabolizzare.

Max Del Papa, 27 gennaio 2020

 

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