Politica

Pieni poteri

Abbiamo bisogno di un ciclo decennale capace di impostare le sorti di una rinnovata Repubblica efficiente, riformista e liberale

Meloni indagata (2)

L’attacco di Donald Trump contro l’indipendenza della Federal Reserve, chiedendo le dimissioni del suo presidente e minacciando di ridurne il ruolo, non ha solo aperto un dibattito economico ma ha rivelato l’ambizione del presidente ai pieni poteri, ovvero la Moby Dick di qualunque politico, una ossessione inseguita con ogni mezzo quando ci si sente frustrati dai contrappesi istituzionali. Ma come per il capitano Achab la caccia a Moby Dick, quella ai pieni poteri fatalmente conduce verso la rovina, perché come la balena, il potere è sfuggente, frammentato com’è tra istituzioni, burocrazie, tribunali e banche centrali.

In Italia, la memoria corre al Matteo Salvini del Papeete, che nell’estate 2019 invocava in costume e con il mojto i pieni poteri, per poi fallire dinanzi al Parlamento umiliato da Giuseppe Conte, o al Bettino Craxi degli anni ’80, con la sua idea di una “democrazia governante” capace di superare i vincoli istituzionali: “La democrazia deve vivere e governare. La democrazia governante è un’idea di vitalità della democrazia, sottratta agli immobilismi, le lentocrazie, e le paralisi di vario tipo che la condannano alla sclerosi ed alla decadenza. Io coltivo la speranza di un rigoroso rinnovamento della democrazia italiana”. Grandi parole che purtroppo si sono infrante contro un Parlamento pavido e una magistratura onnipotente che lo ha spinto fino all’esilio.

Del resto, la separazione dei poteri, codificata da Montesquieu e incisa nelle costituzioni moderne, è l’antidoto ai pieni poteri il problema è quando si passa dalla separazione all’abuso dei poteri. Negli Stati Uniti, il Congresso bilancia l’esecutivo, la Corte Suprema vigila sulla costituzionalità, la Fed governa la politica monetaria con un’indipendenza che la rende quasi intoccabile, e i magistrati in parte nominati dal governo ed in parte eletti direttamente garantiscono l’equilibrio del sistema, il tutto si basa su checks and balances grazie ai quali ognuno può limitare o controllare le azioni degli altri.

In Italia, la Costituzione assegna ruoli distinti a governo, Parlamento e magistratura, secondo la classica ripartizione ma non garantisce un sistema di controlli e contrappesi efficiente, per questo i giuristi hanno tentato, codificando il principio della “leale collaborazione”, di tenere insieme il sistema. Quello della leale collaborazione non è un principio costituzionale, ma il risultato, tipicamente italiano, di un’interpretazione fatta dalla Corte Costituzionale che ha cercato di imporre alle istituzioni di agire con trasparenza, dialogo e rispetto delle prerogative altrui, evitando conflitti o invasioni di campo, inventando un meccanismo di equilibrio immaginato proprio per mitigare la rigidità della separazione dei poteri in un sistema di poteri più autonomi che separati. Insomma vogliamo Montesquieu con una spruzzata di Rousseau e ovviamente non funziona.

E cosa succede quando questa leale collaborazione viene meno e il sistema si inceppa? Semplicemente l’eccessiva autonomia dei poteri si trasforma in abuso, l’autoreferenzialità genera la paralisi, lo Stato si blocca, le riforme si arenano e i cittadini frustrati, iniziano a guardare con favore a chi promette soluzioni rapide. Insomma la separazione dei poteri, nata per prevenire la tirannia, può così innescare una spirale che la favorisce. È l’eterogenesi dei fini della democrazia: la separazione dei poteri, pensata per proteggerla, può diventare il suo tallone d’Achille.

Trump vede il controllo della Fed come un modo per consolidare il potere economico e politico, giustificandolo con la necessità di competere con leader come Vladimir Putin e Xi Jinping, che detengono poteri quasi assoluti. La sua retorica riflette una visione in cui la democrazia “lenta” è un ostacolo in un mondo di autocrati, senza comprendere che questo atteggiamento rafforza proprio il processo autocratico a discapito della democrazia liberale. In Italia rischiamo una deriva simile quando per il ponte sullo Stretto o più recentemente per il centro di rimpatrio in Albania, vediamo all’opera lo schema che si manifesta quando la lealtà viene meno e l’abuso del potere si manifesta attraverso interpretazioni capziose e parziali delle norme, interventi di natura solo dilatoria, rimpalli di competenze senza mai venire a capo di nulla.

Il governo è bloccato nella sua azione, la magistratura esce dal suo ambito applicativo delle leggi assumendo un ruolo interpretativo, il Parlamento ha tempi inevitabilmente lunghi per intervenire su materie di rango costituzionale, mentre l’arbitro, la Corte Costituzionale, sembra sempre aspettare il VAR per prendere una decisione. In questa legislatura potrebbe accadere qualcosa di mai visto in epoca repubblicana. Se fino ad ora non è stato possibile correggere alcune assurdità della nostra costituzione è perché nessun governo ha lavorato con una prospettiva di legislatura e la caduta dei governi e delle legislature impediva ogni prospettiva seria di riforma.

Ma il governo Meloni, senza pulsioni ai pieni poteri, è in carica da due anni e mezzo circa 900 giorni, già oggi ha più che doppiato la durata media dei governi repubblicani (circa 414 giorni) e in pochi dubitano che possa arrivare al termine della legislatura. Ma non basterà per poter infrangere il muro della sleale collaborazione tra poteri dello Stato, per questo abbiamo bisogno di un ciclo decennale capace di impostare le sorti di una rinnovata Repubblica efficiente, riformista e liberale. I prossimi due anni e mezzo saranno decisivi, molto potrà essere avviato, qualcosa concluso ma la parte importante del lavoro chiederà tempi più lunghi e un passaggio elettorale che mantenga intatta la forza riformatrice di questa maggioranza.

I successi in politica estera sono importanti e sappiamo bene che la politica estera è funzionale a quella interna, ma ora serve uno sforzo politico su alcuni temi non più rinviabili: una riforma del sistema scolastico e universitario capace di fornire le risorse per lo sviluppo industriale atteso, da realizzarsi attraverso stipendi adeguati e capacità di investimento; un approccio non ideologico alla produzione di energia che sia il carburante per lo sviluppo industriale; un rilancio dell’industria della difesa che garantisca sicurezza e ricchezza alla Nazione; e infine un significativo ridimensionamento della macchina statale e amministrativa che oggi è il vero blocco allo sviluppo e alla crescita.

Antonio De Filippi, 24 aprile2025

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