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Quando l’Europa è nemica del popolo

Ci sono casi in cui anche nell’Ue diritti civili e sociali sono consapevolmente negati in base a rapporti di forza e valutazioni di realismo politico

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La tutela dei diritti è il marchio di qualità dell’Unione Europea – il suo vanto principale, anzi il suo biglietto da visita nei rapporti con la altre potenze. Tutti i tipi di diritti sono affermati e difesi: umani, civili, delle minoranze, dei consumatori, dei diversamente abili, in patria e all’estero. Qualche volta l’impegno non è premiato e fa danni ingenti: in Libia la difesa dei diritti umani contro Gheddafi ha provocato quasi dieci anni di guerra civile, morti, feriti, sfollati. Le buone intenzioni sono comunque salve e innegabili.

Tuttavia ci sono casi in cui anche nell’Ue diritti civili e sociali sono consapevolmente negati in base a rapporti di forza e valutazioni di realismo politico. E’ il lato oscuro dell’Europa, quello di cui nessuno parla volentieri. Citiamo i tre esempi che ci paiono più drammatici.

Spagna. 12 esponenti politici dei partiti che propugnano l’indipendenza della Catalogna sono sotto processo dal 2 novembre 2017 (9 sono in carcere da allora) per aver compiuto iniziative politiche in vista della secessione. Ad alcuni di loro, eletti nel recente voto europeo, è impedito l’esercizio del mandato parlamentare. Le pene che l’accusa vuole ottenere sono molto alte: per Oriol Junqueras, il leader del principale partito catalano, sono stati richiesti 25 anni di carcere, assai più della pena comminata in Turchia a Selehattin Demirtas, il leader curdo del Partito Democratico del Popolo (Hdp), duramente represso da Erdogan. In Catalogna non c’è stato spargimento di sangue e atti di violenza sono stati compiuti solo dalla polizia spagnola che intendeva impedire il referendum sull’indipendenza convocato dal governo autonomo catalano. Va ricordato peraltro che consultazioni vincolanti per l’indipendenza non sono una novità per l’Europa: nel Regno Unito si è tenuto il 18 settembre 2014, con il consenso del governo nazionale un referendum sull’indipendenza della Scozia.

Quel che stupisce è la disparità di giudizio con cui operano le istituzioni europee. In alcuni casi manifestano un attivismo puntiglioso nel valutare la qualità democratica di norme e comportamenti: la Polonia si è vista bloccare, su input della Commissione, una legge che abbassava da 70 a 65 anni l’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema (motivo: in questo modo il Governo avrebbe potuto manipolare la composizione dell’organo); l’Ungheria ha subito una durissima censura da parte del Parlamento europeo (se ratificata dal Consiglio Ue, la decisione leverebbe a Budapest il diritto di voto nelle varie istituzioni) a causa delle sue leggi sull’immigrazione. In altri casi, invece, scende un gelido silenzio (realpolitik?): l’azione della Spagna, che incarcera i pacifici vincitori delle elezioni e reprime basilari diritti politici, è trattata come un fatto del tutto normale. Atti che costituiscono il segno distintivo delle dittature sono di fatto avallati dalle istituzioni europee.

Grecia. I vincoli imposti al bilancio pubblico di Atene (a oggi è richiesto un avanzo primario del 3,5%) dalle istituzioni comunitarie e internazionali che ne rifinanziano il debito hanno provocato drammatici tagli alla spesa sociale. Il comparto dove si manifestano le conseguenze più gravi è la sanità dove oggi la spesa pubblica pro capite è in Grecia circa il 40% di quella erogata in Italia. Ciò comporta riduzioni drammatiche delle cure: per anni i farmaci anti-tumorali, disponibili in misura insufficiente, non sono stati forniti oltre certe soglie di età. E’ difficile sostenere che il diritto alla salute non sia gravemente leso. E’ difficile anche sfuggire al sospetto che la salute dei greci sia stata sacrificata alla salvaguardia delle banche che hanno fatto prestiti oltremodo azzardati alle istituzioni di Atene.

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