Quei 5 editti di Draghi

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Dieci anni e sembra ieri. O un secolo fa. In molti si sono esercitati a “celebrare” la lettera che il 5 agosto 2011, in forma “strettamente riservata” (tanto riservata da essere commentata per una estate intera e poi rivelata integralmente il 29 settembre di quell’anno) il presidente della Bce Jean-Claude Trichet e il suo successore in pectore, Mario Draghi, inviarono all’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.

Abbiamo letto i ricordi “cesaristi” di Mario Monti (che se la prende con Draghi per gli “eccessi di restrizione” contenuti nella missiva e di cui il senatore a vita si fece interprete da Palazzo Chigi, come se fosse stato costretto!) e quelli più scanzonati di Francesco Forte (che con Paolo Savona, Renato Brunetta e Rainer Masera fu chiamato a costituire il gruppo di esperti che Berlusconi allestì per rispondere alla lettera). Forte lo ha scritto chiaramente: “La lettera di Trichet e Draghi non poneva termini draconiani. Ma il presidente Napolitano preferì varare il governo tecnico Monti, che con la patrimoniale sugli immobili e la riforma delle pensioni Fornero creò la decrescita del Pil e l’aumento del deficit e del debito pubblico. Seguirono Enrico Letta, Matteo Renzi eccetera. E il debito che prima della pandemia era al 119% salì al 135% del Pil”.

Oggi il debito – durante e dopo la pandemia – è schizzato oltre il 160%. E rileggendo la lettera si potrebbe fare un altro programma di Governo, se non fosse che a firmarla, allora, era anche chi, dieci anni dopo, è diventato presidente del Consiglio.

Nell’estate e nell’autunno del 2011 tutta l’attenzione si fissò sulle pensioni. Ne sono buon testimone. Chi allora osò criticarne gli eccessi – lo dissi e lo scrissi – venne tacciato come nemico, al punto da contestare i numeri tempestivamente resi noti di coloro che sarebbero precipitati nella faglia del rinvio della pensione. Il ministro del Lavoro disse – alla presentazione della Relazione annuale dell’Inps del 2012 – che si era dovuto intervenire come se si dovesse amputare una gamba in cancrena. Con buona pace della gamba e delle sue dimensioni.

Ma la lettera di Trichet e Draghi non parlava solo di pensioni. L’elenco delle sollecitazioni rimaste per dieci anni – ancora oggi – sulla carta, non è breve. Ci limitiamo a cinque punti (potrebbero essere di più). Cinque spine che segnano una differenza – lunga dieci anni – tra il Draghi alla Bce e il Draghi a Palazzo Chigi.

1. “È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali”. Guardiamo all’Ama di Roma o alla permanenza degli ordini professionali: sarebbe utile capire se dopo dieci anni Draghi ha cambiato idea.

2. “Riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”. Sul tema il Governo può fare solo una moral suasion, ma non sembra che questa sia la strada suggerita, vista la regolare suggestione alla concertazione.

3. Si richiedeva “un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”. L’urgenza è ribadita dal Governo, che nella pratica latita. E rinvia, da mesi.

4. “Il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi”. Il tema è spinoso, ma la riduzione della spesa pubblica, per Draghi (e Trichet) dieci anni fa metteva in conto anche la riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici.

5. “Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione)”. Il suggerimento è autorevole e condivisibile. Peccato che nella recentissima e improbabile riforma della Giustizia non ci sia traccia di indicatori di performance. E non risulta che se ne stiano pensando di simili nella scuola.

Il rimbalzo del Pil verso una crescita del 6% suggerisce di non disturbare il manovratore, ma non esime da ricordare qualche punto di programma inevaso e una leggerezza eccessiva in termini di spending review.

Antonio Mastrapasqua, 10 agosto 2021

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