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Riaprire la scuola? Il problema non è quando, ma come

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Brutti questi tempi, dove il capire se il futuro sarà cielo o burrone diventa una questione di calendario. Il tema è quello della scuola, dove negli ultimi giorni si è animato un braccio di ferro tra due date cerchiate di rosso per il ritorno in aula. O il 9 dicembre, come voleva il ministro Lucia Azzolina, rischiando di cascare con entrambi i piedi nella pozzanghera degli errori già visti dopo la prima ondata; o il 7 gennaio, come chiedono le Regioni. A questo punto, non sono due settimane, perché di questo si tratta, essendoci di mezzo in ogni caso lo stop di Natale, a fare la differenza.

Il problema non è il quando, ma il come. Non sull’aspetto di prevenzione pandemica, sui i banchi a rotelle, autobus, le mascherine, l’auto di mammà o monopattino. Ma un “come” più ampio, che abbraccia il futuro di una generazione e di una società. Inutile far finta di niente. L’Italia che sbucherà fuori dal Covid avrà impressa un’accelerazione della storia che cambia le carte in gioco. E rafforza delle necessità. Quella di un nuovo sistema educativo, di un’altra scuola, è forse la più pressante. Non si scherza più. In realtà non avremmo dovuto scherzare neanche prima, ma oggi ancor meno. L’Italia che veniva avvolta dalla nube della pandemia, e che spediva i suoi ragazzi a casa, a far lezione, per quanto possibile, davanti ad un computer, era profondamente in ritardo sul piano educativo.

Il rapporto Pisa-Ocse 2018, diffuso alla fine dello scorso anno, indicava come i 15enni italiani, a confronto con i coetanei degli altri Paesi che fanno parte dell’Organizzazione, avessero un livello sotto la media per la comprensione di un testo. Male anche in scienze. Leggermente meglio, invece, in matematica. Sempre lo stesso rapporto, poi, indicava uno squilibrio tra Nord e Sud. Doloroso anche lo scenario (su dati Eurostat) per quanto riguarda gli abbandoni scolastici, che coinvolge il 14% degli studenti italiani. Ma se sommiamo all’abbandono proprio anche quello “implicito”, ossia i ragazzi che concludono il percorso senza averne le competenze, arriviamo al 20%. Uno studente su 5 o dice addio alle aule prima del dovuto, oppure prende il titolo senza meritarlo. Attorno alla glacialità dei numeri ruota una realtà non misurabile con l’aritmetica, che poggia su alcuni contro-valori.

La dilapidazione del ruolo dell’insegnante, oramai spogliato da qualsiasi veste d’autorità, e lo stravolgimento di quello del genitore, in troppi casi propenso a sventolare la bandiera da sindacalista dei figli. Non è questo il punto di spinta per ripartire in un Paese che uscirà dalla crisi del Covid con una smaniosa sete di idee, di impegno, di sacrificio per ricostruire. Due economisti, Hanushek e Woesmann hanno di recente calcolato che soltanto le 18 settimane di didattica a distanza nella seconda metà dello scorso anno costeranno all’economia italiana 1,5 punti di pil perduti da qui al 2100.

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