Robert Mueller e l’effetto Watergate

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Speciale zuppa di Porro internazionale. Grazie a un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri.

La povera Gail Collins già del comitato di direzione del New York Times e già la prima donna a dirigerne la pagina degli editoriali e dell’opinioni, il 30 maggio commenta l’opera di Robert Mueller con un articolo particolarmente tormentato come si comprende sin dal titolo: Mueller è un warrior, un guerriero, o un wimp, un buono a nulla?

Il succo dell’opera di Mueller, secondo la Collins, sarebbe che non aveva le prove dell’innocenza del presidente sull’ostruzione alla giustizia anche perché per investigare fino in fondo bisognava incriminarlo, cosa proibita dalla Costituzione per un reato federale: l’incriminazione non può che derivare semmai da un’iniziativa del Congresso. Sulla collusione con la Russia invece non ci sono prove di colpevolezza ma in questo caso l’Fbi aveva il potere di investigare e non è riuscita a trovarle. Anche se il cosiddetto special counsel cerca di evidenziare come sul caso russo comunque Donald Trump abbia sottovalutato le interferenze di Mosca che invece sono state abbondantemente provate.

La Collins, pur esprimendo simpatia per Mueller, non nasconde riserve sull’ipocrisia del suo atteggiamento che in parte ricorda il guazzabuglio creato da James Comey (direttore dell’Fbi poi licenziato da Trump) su Hillary Clinton e le sue e mail riservate e poi distrutte: non si è comportata bene però non ha commesso reati… anzi forse sì… anzi forse no.

La Collins, non si chiede però perché un’istituzione così gloriosa come il Bureau si sia messa in questa condizione di essere non solo osteggiata dal rozzo Trump ma anche sbeffeggiata da raffinati opinionisti liberal. Invece sarebbe utile cercare di capire il perché di quel che sta succedendo: in parte ciò che avviene è determinato dal cosiddetto effetto Watergate, la convinzione  di tanti uomini di entrambi i partiti e di tanti giornalisti superpartisan come quelli del Times, di poter risolvere le scelte politiche affidandosi a inchieste giudiziarie. In parte questa situazione è anche prodotta dalla idea che ha fatto strada in diverse agenzie americane sia di polizia sia finanza di come il ruolo della politica nel mondo sia sempre meno rilevante e che le cose decisive vadano affrontate da istituzioni neutre, mettendo ai margini (e talvolta magari ai ceppi) chi invece pensa siano necessari ancora interventi soggettivi di partiti o di stati.

Infine una delle radici dell’attuale confusione è figlia di quell’imbroglione di Barack Obama con i suoi metodi cichagoan, che quando apprese delle iniziative di disturbo russe invece di allertare bipartisanamente tutti i candidati, sperò di usarle per liquidare chi non gli piaceva. I russi come ha detto anche il loffio Comey hanno messo in atto interventi molto “loud” molto strillati perché, come ha fatto recentemente osservare Sergej Lavrov, hanno dossier su dossier di interferenze americane nella vita politica moscovita. Obama invece di contrastarli  ha avviato una manovra che a partire dal dossier Steel appare seriamente sporca.

Quanto si sono fatti invischiare il Bureau e altri settori del Deep State in questo intrigo? Dal nervosismo con cui si comportano in tanti, almeno qualche errore deve essere stato commesso. Forse, comunque, sarebbe ora che le varie parti americane smettessero con questo gioco in cui le guardie spesso finiscono per diventare i ladri e si riprendesse a fare scelte politiche orientate da idee politiche non da scorciatoie giudiziarie.

 

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