Cultura, tv e spettacoli

Sanremo, è chiaro: vinceranno loro. Ma non chiamatela musica

La seconda serata svela chi si aggiudicherà il Festival. Povero John Travolta. Allevi lo rispetto, ma la malattia non si racconta così

Sanremo Amadeus festival

Esco alle 7 per andare in ospedale dove mi aspetta il quarto ciclo di chemio, ho dormito 4 ore perché alle 2 stavo ancora seguendo il Festival dell’orrore e alle 7 in giro ci sono già i ragazzini che, diretti a scuola, involgariscono allegramente i Kolors: “Un ragazzo/incontra una ragazza/le… sulla faccia…”. Ho capito due cose, una che il woke non vincerà mai perché contro natura, due che i Kolors vinceranno Sanremo perché l’uomo è una bestia, per dire natura grezza che seppellisce le ideologie e dura.

A sentirle la mattina dalla radio mentre prendi il cappuccino al bar, le robe di Sanremo acquistano un loro perché; uno capisce che fanno pena ma una pena calibrata, maliziosa, che tutto in loro è assemblato per vendere. La grande truffa del big nothing a base di autotune, di plagi, di linee d’archi rubate ad altre epoche, altri artisti, da Nile Rodger ai La Bionda. Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si ricicla! E va benissimo, è business, è indotto, sono soldi: a farli e farne fare Saranno i soliti qui: Mahmooh, Kolors, Annalisa, Angelina Mango, forse qualche outsider al momento non pervenuto. Va benissimo ma almeno non chiamatela musica. La musica gira al largo da Sanremo, sedicente festival della canzone italiana. Se volete incontrare la musica, se volete ricordare quanto sa essere affascinante, emozionante, complessa e semplice e decisiva e misteriosa, se volete riscoprire quando la musica sa essere musica, ebbene sono usciti da poco due album meravigliosi da due autori superbi, gente non di primo pelo ma in giro, nei circuiti indipendenti, da più di trent’anni.

Umberto Maria Giardini e Paolo Benvegnù, rispettivamente con “Mondo e antimondo” e “È inutile parlare d’amore”, sono la musica. Vera, semplice e complicata, viscerale e pensata. Poetica sempre. Due dischi perfino offensivi per quante meraviglie sanno contenere. Umberto, Paolo ed altri per Sanremo non ci passano o non ci passano più in gara, sarebbe farsi male, in questo Sanremo degli strappalacrime a gettone come Diodato, questa Cremina Power del Patetico mercantile, finirebbero per apparire dei provocatori, troppo colmi di talento, troppo alieni. Questa è gente che non patisce confronti neanche coi Tenco, col tanto e sempre esaltato Gino Paperi che alla fine deve la sua imperitura fortuna alla melassa del cielo nella stanza e a quella sciocchezzuola armonica della gatta cheavevaunamacchianera.

Mi dicono che nel parlare di Sanremo sono snob, uno che fa lo scontento per posa, spirito di contraddizione. Sarò uno snob ma il mio disagio è sincero e non è colpa mia se la musica la tratto come uno che la mastica bene o male fin da bambino. Non è tutto uguale, uno vale uno è indecente anche nell’arte, soprattutto quella. Se no di che parliamo? Di fatturati, d’accordo. Va bene, va tutto bene. Basta ristabilire le giuste proporzioni: a Sanremo di musica non si scorge il segno. Neanche piccole tracce. Benvegnù nel suo disco ha infilato un pezzo sarcastico, cattivo, “Canzoni brutte”, contro gli ectoplasmi del consumo facile: in tre minuti mette in fila tutti gli stilemi, le banalità, il cinismo dei conati che sfilano all’Ariston. Roba che, per citare Frank Zappa, “ci vogliono 5 minuti a scriverla”. Anzi meno, perché Frank ragionava ancora in termini di composizione, oggi con una app in 5 minuti fai 50 brani, fai tutto Sanremo. Basta saperlo.

Il big business velato dal biglietto nothing ha la faccia grifagna di Amadeus, finto bonario, di Mengoni, vero binario, quella da paraculo di Ciuri, stasera tocca a Giorgia che ricorda una di quelle portinaie inacidite di Simenon (“anch’io mi chiamo Giorgia ma non rompo i coglioni”, ricordate?). Il festival dell’arte, no politica, come sempre trucca le carte e la politica la fa scorrere sottotraccia dalla Bella Ciao di Ama alla peroratio di Fiorello per Ilaria Salis “che non ha fatto niente”. E a spiegargli che questa sta in mezzo al gran casino degli anarchici balordi tedeschi ed europei si dura fatica inutile perché lo sa benissimo o almeno gliel’hanno spiegato. Ma è questione di saper leggere tra le pieghe del circo: questi si stanno come sempre parlando le chiappe, convinti che il potere attuale è transitorio, che tornerà l’ancient règime. Capisci a loro!

Comunque se con questo baraccone elettronico Amaciuri e il resto della banda han fatto 10 milioni e mezzo, due meno dell’altra volta, ma il 65% di share, una roba storica, vuol dire che sempre meno lo vedono ma chi vede lo schermo vede solo questo. Meno televisione ma più concentrata, più ortodossa, da massa intruppata. Se alla Rai sta bene! Uno su sei, compresi i migranti, i cretini e gli assassini. È troppo, è poco: forse entrambe le cose, mentre non si sa di chi che parlare e ci si inventano certe baudate nazionalpopolari come il vecchietto Ruggero, che però è azzardoso, hai visto mai che presentasse meglio di Ama, si eccita a colpi di onanismo streaming, Annalisa venti milioni, Angelina trenta, roba da diventare sordi, si finge divertimento per il settantenne Travolta dalla febbre del sabato sera al ballo del qua qua del mercoledì, che mattacchioni questi qui, ci si forza ad inventare lo scandetto da scendiletto, Irama che succhia Lewis Capaldi che nessuno conosce, la Mannoia che ha bestemmiato, ma figurati, una cattocomunista bigottona come lei, e per ultimo arriva Puente, una delle bimbe di Chicco, che si guadagna il pane spiegandoci che è FALSO!, in caratteri drammatici, apocalittici.

A questo punto, lettore, una nota personale me la concederai: mi urge e un po’ mi brucia, in molti sensi. Sono malato oncologico come Giovanni Allevi: non condivido una sola parola di cosa ha detto, tranne la gratitudine verso i sanitari, e di come l’ha detto. Non mi racconterei mai così, men che meno all’uscita dal tunnel (evviva, auguri). Non ne avrei parlato, ma la cronaca lo impone e personalmente posso nascondere che, da paziente, preferisco la rabbia della testimonianza. Anche dell’ironia, della poesia, quando si può, ma non così. Lo rispetto, è chiaro, ma non mi si venga – non ci si venga – a parlare della bellezza delle aurore quando si ha un cancro. Così non è proponibile, e, anche se Giovanni è Giovanni, un ostinato e magari commovente Bambino che neppure il male più spaventoso fa invecchiare, così sembra troppo fatato. E pure è un momento a suo modo vero, merce rarissima qui dentro, perché il dolore è reale come la paura e quel fluttuare nell’eventualità che ci ghermisce. A parte questo, la fiera del fittizio e del banale infierisce anche stasera (Sanremo è roba da balera e lo dimostra: da Sangiovanni a Sangiovese il passo è br(e)ve e comunque in avanti) e tutto sa già di ruminato, di deja vu anche se Ama dice che c’è una grande energia, una grande energia. Beati loro.

Max Del Papa, 8 febbraio 2024

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