A questo punto Benigni dev’essere per forza il cardinal legato di Mattarella. Non c’è altra spiegazione, non è possibile che questo giullare di corte che da trent’anni non fa niente di rilevante sia fisso a Sanremo peggio dei Ricchi e Poveri, di Irama. Due anni fa lo chiamarono per riesumare la Costituzione abusivamente congelata col pretesto pandemico, e lui si produsse in un numero noiosissimo e servile sotto la smorfia benedicente del nostro monarca repubblicano. Questa volta, la sesta in 45 anni!, è venuto a vendersi l’imminente servizio privato che gli fa il servizio pubblico. Quantum mutatus ab illo!
Appena la notizia ha cominciato a circolare sono stato investito da una tempesta di messaggi: ah, vedi, è la serata Pd, c’è pure la Cucciari, questo perenne focolaio d’indigestione che non risolvi neanche a overdose di bicarbonato (ma da conduttrice si sbatte e va una spanna sopra le altre). Io direi piuttosto serata del consociativismo. Chiaro che la sinistra schiumante dopo la normalizzazione di Conti non può restarsene inerme, ma diremmo che al blocco governativo attuale non dispiaccia più di tanto se la sinistra difende le sue casematte: basta che nessuno dia fastidio davvero a nessuno, così tutti campano tranquilli, poi, per le polemiche cretine, c’è sempre Saviano.
Una spartizione, una coabitazione di spazi che Sanremo riflette per genetica. Al di là di tutto, rimane inspiegabile la perennità di questo indefinibile personaggio, non più comico, non attore, non uomo di spettacolo, ampiamente svuotato in quel non riuscir più a indurre che noia, quel conformismo che ha rinnegato qualsiasi presupposto, quel servilismo istituzionale che partiva già prendendo in braccio Berlinguer: da allora Benigni non ha fatto altro, idealmente, che prendere in braccio potenti di sinistra dai quali farsi adottare. In America hanno Springsteen, noi abbiamo questo vecchino rinsecchito, questo toscano alla panna, un po’ rancida. Un vero enigma questo cardinal legato o federal comunista buono per tutte le stagioni e per tutti gli usi, stucchevolmente accolto ogni volta come Cristo al nuovo avvento, con Conti che deve farsi venire un’ernia per caricare le risate per tanto spreco di banalità, di avanspettacolo di provincia, di allusioni politiche da bar, tutte a senso unico, di pedagogia ginnasiale: quasi quasi risulta più irriverente il Lampadone, che è tutto dire. Ma l’Inno del Corpo sciolto censurato in ogni parola assume valore di zeitgeist: i tempi sono questi, fatevene una ragione. Tempi di cortigianeria scatenata, di autopromozione senza scrupoli, di tentazioni autoritarie, di repressione affidata ai virologi e di conformismo consegnato ai buffoni, il più illustre dei quali può prodursi in una cascata di bava grottesca, francamente imbarazzante per un Paese democratico, rivolta al capo in tutti i sensi dello Stato di cui può essere immaginato a scelta come marionetta, ventriloquo, groupie, bimba di.
Ma andiamo, è tempo di emigrare: venerdì è il più crudele dei giorni, tocca alle cover e il confronto con l’attualità è di anno in anno più problematico. Ovviamente a volo d’uccello che gli caga sulle teste, soffermandoci, a nostro insindacabile giudizio, sui casi più interessanti o altrimenti agghiaccianti come Luin Villain che dice “Fiori rosa fiori di pasco” duettando con (Chia)Chiello, chissà che avrebbe detto Battisti di questi due scappati dal pollaio che lo profanano. Modà e quello che stava con Ambra irrilevanti, anzi inconsistenti, anzi inesistenti. Mammut si è gonfiato le labbra e non voglio sapere come. Clara e il Volo sono una offesa alla carità di Patria oltre che a Simon & Garfunkel. Noemi la arroccata e Tony Effe, mastro incatenato, sono un innesto, anzi un intruglio più Spike che ogm, e tutto il resto è bestemmie. Michielin e Rkomi, anagramma d’artista, sono la conferma che i ragazzini andrebbero mandati a lavorare come in Cina sotto Mao, se no finisce che si credono cantanti.
Adesso vi racconto di Lucio Corsi che fa il furbo con Topo Gigio. Questo è uno nella capace manica di Verdone e d’Agostino (“Vita da Carlo” spiega tutto), ma, soprattutto, chiocciato da Caterina Caselli, forse la più potente discografica da mezzo secolo: per questo entrerà nei primi tre, ma a fare gli alternativi così non è buono nessuno, solo lui. Brancale e Amoroso su Alicia Keys in qualche modo se la sfangano (breve parentesi, rivolta a tutt e tutt: potreste potreste potreste gentilmente smetterla di rompere i coglioni coi ringraziamenti gloriosi dopo aver cantato, che durano tre volte più della canzone?). Irama con Arisa, disagio s’improvvisa. Qui, comunque, non passa piccione che non abbia qualcosa da autopromozionarsi, la Rai è un suk levantino. Gaia avrebbe bisogno di un Toquinho di lezioni di canto, ma tanto mi sa non servono, speriamo solo la Vanoni non la senta, potrebbe esserle fatale. La gente non si accorge, ma nonno, che dovrebbe essere la seconda di accompagno, canta più alto di lei, la copre, perché non è in grado. The Kolors credo si riferiscano alla tricologia di Sal da Vinci. Che bara come si tinge: questa è la cover di Pazza Idea, altro che cazzi. Perché Marcella usa due piccoli gelatai col violino? Comunque lei non sbaglia una nota e il fratello Gianni, autore di “L’emozione non ha voce”, è stato uno dei più bravi compositori pop dell’età d’oro.
L’autotune va bene per Mammut e Carlo Conti, che non sa che farsene perché ha il senso dell’umorismo di un comò. Rocco Hunt e Clementino e fioriscono le scommesse, capisciammè. Spaccanapoli, ma, soprattutto, spaccamaroni, povero Pino. E poveri noi con la coreografia stile Hamas del Mammut che manco l’autotune lo tien su. E va beh, il dazio queer è assolto, l’abbonamento in palestra pure.
Attenzione, arriva proditorio un momento bello. Tricarico è artista di caratura superiore, ha un canzoniere meraviglioso, ma è fuori dai giochi, Gabbani lo ha chiamato e ha fatto una gran cosa; “Io sono Francesco” ha un inciso aperto, commovente, e 25 anni di vita: un quarto di secolo dopo, Tric la riporta fresca come il primo giorno, solo, ecco il tocco d’artista, la destruttura, la recita, si fa da parte, lascia all’altro Francesco, molto leale, molto ispirato, tutta la parte cantata. Ne esce la carezza di una emozione straniata, ancora intatto il fragile trauma di un bimbo cui la maestra, in un attimo, insegna la crudeltà della vita.
Giorgia, con Annalisa, si gioca la carta Radiohead, che è una furbata un po’ così: il brano è di Adele. Pretenziose più che intense. Cristicchi e Amara, compagni d’arte e di vita, vanno sul sicuro: loro da due anni portano a spasso per l’Italia il Battiato mistico e il concerto non è un’esperienza facile, è rigoroso, richiede partecipazione, impegno. Non concede niente, ma alla fine rende in abbondanza; traslarlo sull’Ariston indica coraggio, libertà artistica, nessuna predisposizione ai compromessi.
Dopodiché arriva questa discominchia di Sarah con l’acca Toscano e Ofenach, con una F sia chiaro. Ma l’operetta non c’entra, niente c’entra. I Coma_Cos’è? provvedono a rovinarci uno degli ultimi ricordi d’adolescenza; non tiene ritegno neppure il Righeira, ormai disposto a tutto per una comparsata. Conti gode senza controllo, è riuscito ad ammucchiare Festival e Migliori anni in un trionfo di pornostalgia. Joan Thiele era in ritardo, s’è scordata la gonnella, ma che razza di sospensioni fa? Quell’altro, Frah Quintale, ha una piccola paresi, roba da poco. Non cantano, singultano su languori ginopaoliani: e noi, purtroppo, peggio a causa loro. Ci vuole uno spavento per farlo passare, forse basta riascoltarli. Olly con un po’ di gente impegnata, tra cui Robin Williams, s’impegna a disimpegnarci, io almeno vado un attimo in bagno, scusate, già reggo poco De André, il Pescatore in versione balcanica-jovanottesca col cantato da osteria di Quarto Oggiaro non ce la posso fare. Elodie e Lauro sono un concentrato di coattaggine, però griffata. Sono fatti l’uno per l’altra: non hanno ombra di dotazione tecnica, sono parecchio sopra le righe, insomma: oscene da un matrimonio.
Ranieri può fare Pino Daniele, con o senza Neri per caso, questione di storia e geografia, sensibilità e mestiere, anche se forse un po’ meno enfasi nel canto non guastava. Willie Peyote con Tiromancino e Ditonellapiaga direi prescindibili. Brunori con Sinigallia e Dimartino fa Dalla, il canto all’amico scomparso ed io voglio raccontarvi appunto che me lo ricordo un giovanissimo, esordiente Dario intrufolarsi sudato di speranza nei backstage di Paolo Benvegnù e Paolo, che era buono e nobile, lo accoglieva come un fratello ed io pensavo: ma questo adesso chi è? Poi non l’ho pensato più e so anche chi è. Un artista di valore e un uomo di valore, uno che non dimentica, un uomo d’onore. Uno a cui umilmente mando un grazie commosso, che non saprà: Paolo avrebbe compiuto 60 anni e ancora troppo pochi conoscono la sua immensità. Quante volte abbiamo riso del fatto che tu a Sanremo non ci andavi mai: e ci sei arrivato in assenza. E scriverne è un altro colpo di fucile mentre fuori piove. Lasciatemi piangere due minuti da solo; troppo solo, Paolo.
“Bella stronza” è l’ennesima trovata pubblicitaria di un Fedez senza più anima né dignità. Uno che ha perso la sua vera metà, perché è come lui. Ma se va bene a Masini… Bresh con De Andrè jr rispolverano per l’ennesima volta l’ingombrante Faber, funestato da problemi tecnici, ma posso dire che di questa world denadreiana ne ho fin sopra le orecchie, forse per esubero di significati? Sciapis in fundo, Shablo coi soliti più Neffa, di significati solo latitanza, è l’evocazione di quell’hip hop edulcorato anni ’90 che avrebbe generato la peste trap.
Le cover di Sanremo sono ridondanti, inutili, fisse come Mammut, gnoccolone muscolato di marmo, come Conti, come il sorriso nuragico di Geppi, come tutto, ma nascondono pepite d’emozione: bisogna solo sapere dove scavare. Nel dolore. Questo articolo è in memoria di Giorgio Cocilovo, musicista tra i più splendidi della storia italiana, mille volte nell’orchestra del Festival, doverosamente ricordato da Conti. Ciao Giorgio, nell’infinito suona la tua chitarra di cristallo e d’orgoglio, specchio della tua anima.
Max Del Papa, 15 febbraio 2025
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