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Sanremo, l’epilogo strampalato di un Festival che sa di farsa

All’Ariston trionfa Olly, sconosciuto e senza grande talento. Ma questo è Sanremo, inutile illudersi

Alla fine tutto si risolve in un gioco di potere tra due manager donne, Caterina Caselli, che controlla Lucio Corsi, e Marta Donà, nipote di Celentano, che ha Olly (e Cattelan). Due che nessuno conosce arrivano primi. Olly non c’è, non ha la canzone, non ha niente, quell’altro è un pupazzetto griffato Gucci. E la spunta il più sconosciuto e stalentato di tutti davanti a gente come Cristicchi e Brunori che sono i soli a esistere, a meritare.

L’epilogo più incredibile e strampalato in 75 anni di Festival, ma questo è Sanremo, dove l’unica cosa vera è la più falsa. Vincono i giullari nuovi e quelli vecchi. Benigni voleva difendere Mattarella da Putin? Sferzare il PD sulla persistenza di Giorgia a cavallo del missile muskiano? Sollecitare qualche operazione risolutiva? E a quale titolo? E perché qui? Perché Sanremo è Sanremo ossia articolazione, riverbero della politica, del regime consociativo che si attrae e si respinge. Gente di bassa lega spara nei coglioni a Cristicchi? Si, è qui apposta, killeraggio organizzato, le considerazioni estetiche solo pretesti. Lucio Corsi, raccomandato per forza? Si, idealmente dal milieu di sinistra che ignora i suoi plagi storicizzati, Zero, Bowie, Gabriel, Camerini, una sinistra Topo Gigio. Il solito di dagospia che aizza le Giorgie contro altre Giorgie, e quelle non si fanno pregare? Datevi una risposta.

Il sabato è sera morente a Sanremo, urlo morente e rutilante, si decide tutto ma i giochi sono fatti. Come una sterminata attesa della fine, poi la settimana blasfema di stanca passione si richiude su se stessa e niente resta, niente fu mai vero.
Tutto è compiuto. E ci si accorge che vera gloria non fu mai, solo l’immenso fumo del diavolo che alimenta visioni, che confonde. Ancora una volta una conferma dello spettacolo a specchio dei tempi opachi, fangosi, anche se quest’anno è tutto burocrazia e miseria, rito e pianto di prefiche al posto delle prediche. Anche volendo Il posto delle fragole: “I nostri rapporti con il prossimo si limitano, per la maggior parte, al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana…”. Una cosa morta, di morti in posti morti, senza tempo. Una cosa dove pare normale il cinismo ignobile di mandare un ragazzo di 20 anni, un calciatore di 20 anni, con la morte nel cuore e negli occhi, a fare propaganda per ciò che lo ha fottuto.

A pensarci, niente è stato vero, dunque vivo; neppure noi che con tanto accanimento ne parliamo. Ma Sanremo nella fissità mortale dura, si proietta, Conti, che è un funzionario dotato del necessario cinismo, pronto per nuove repliche, nuovi e vecchi cantanti che non possono cantare, ospiti patetici, parassiti, cortigiane e sicari armati di parole vane, vane. Ci hanno provato a rendere il Festival a suo modo demoniaco, di Mammona, della menzogna costituzionale, un po’ meno losco, qualcosa di decente. Non ha funzionato, la cifra dello squallore ha resistito, ha comunque prevalso. I giudizi non sono critici in sento tecnico, per competenza, sono malevoli su base militante, killeraggio da sicari e così le esaltazioni per gente che è qui e non lo nasconde per un unico motivo: sfondare, sistemarsi, fare soldi, al diavolo tutto il resto.

Dicono che le varie Gaia e Clara e Sarah siano giovani, condizionabili, a me sembrano più figlie del cinismo incallito alla loro età, gente senza la vergogna di quello che propone, delle truffe che impersonano. Ho visto su un giornale pesante certi voti, 8 allo necrofilia di Battisti praticata da Rose Villain e non ho capito, non si poteva capire: una passa da prodigiosa, da campionessa solo perché ha dichiarato che sta con Elly Schlein e disprezza Meloni, disprezza Trump al punto da lasciar vuoto l’attico a New York? Cosa ha a che vedere tutto questo con le canzonette?

L’esaltazione di Benigni, bolso al limite del patetismo, come la spieghi decentemente se non con lo zelo più cretino, lo stesso che porta a smaniare per Mammud che fa una performance artisticamente nulla ma gonfia di riferimenti all’omosessualità da club e all’islamismo velato? La si mette come si vuole, ma quel siparietto evocava con totale evidenza la militanza gender con alle spalle l’evocazione dell’Isis, fantastica fin che si vuole ma non smentibile; ricordava il massacro di 21 cristiani copti macellati dall’Isis in Libia nel 2015, qualcosa di impressionante per allusività. E la fusione ideologica del gender con l’islamismo stragista è solo apparentemente assurda, in realtà ha un suo senso, praticato dalla sinistra occidentale nella prospettiva dell’annientamento del cristianesimo.

Tanto quanto, nel Sanremo contiano viene esaltato con accenti deliranti; dall’altra parte l’esecuzione spicciola, brutale di Cristicchi, cristiano che canta la tenerezza del dolore. Puoi non gradire il personaggio, le sue suggestioni metafisiche, il suo raccontare lo svanimento della madre, ma allora mi spieghi in cosa la costruzione, le liriche, gli arrangiamenti del suo pezzo non funzionano; quando hanno fatto messe di premi consolatori per negargli il più importante. Non puoi ridicolizzarlo in quanto misticheggiante, per dire uno a metà tra fanatismo e opportunismo, non puoi infangarlo perché ha fatto uno spettacolo sulle foibe. Il suo caso è esemplare di un modo di fare critica del tutto ignobile, fetente, roba che punta a demolire uno per i motivi più abietti coi modi più abietti, roba da picconata in testa dai sicari del Soviet. Più in definitiva, di giudizi tecnici, artistici se ne sono sentiti pochi e letti ancora meno, sostituiti dall’incompetenza vanitosa dei comunicatori, degli influencer, dei propagandisti, dei parassiti.

Un festival depurato ma non epurato: la schiuma dei giorni di Sanremo agitava sinistra intollerante che vuol decidere chi partecipa, con quali contenuti, e perfino chi siede in platea. Non imparano mai, vogliono tutto e sono naturalmente totalitari, e naturalmente stupidi. Ridicoli in quella pretesa censoria che ormai induce compassione. Siccome di polemiche interne non ce n’erano, le hanno costruite loro ma nessuno gli è andato dietro. La sinistra è una cosa anormale, deviata per cui se uno fa una canzone sulla madre che non lo riconosce è un fascista perché bisogna spingere la compravendita di uteri, di feti e di migranti. Con uno di questi che fa strage in Germania ma va bene. La sinistra è la spocchia rancorosa di Cucciari, il conformismo senile di Benigni; e il dovere di eccitarsene, di bagnarsene, senile patetico dovere.

Ecco, diremmo che di questo ennesimo festival di morti, questo resti, per eterogenesi dei fini, per effetto avverso, la dissimulazione scoperta del conformismo di un conduttore che normalizza perfino il vecchio giullare conformista, ma alla sinistra fallita non basta, ne vuole di più, del suo colore che è il colore del delirio e del sangue guasto di chi è misero dentro, è falso e in fondo si fa schifo anche se si piace tanto. I megafoni del woke cadaverico hanno facce ordinarie, deformate, tradiscono non il Male stralunato, allucinato dei Surrealisti, ma un Male rozzo, infantile, che priva di senso la questione di Platone, “qual è il tuo demone”? Questi hanno demoni miseri, meschini, anzi non hanno demoni, sono privi di grandezza nel peccato.

Pare assurdo che uno venga odiato per una canzone sulla madre nell’oblio della demenza, ma non lo è. Dovremmo sopprimere le nostre madri che non più ci conoscono, ecco tutto, e chi non è d’accordo non deve vincere, deve sparire, venire infamato, cancellato. Cristicchi prima della finale non ha voglia di parlare, di perderci tempo, sa che gli hanno sparato nei coglioni per non farlo vincere, ma con me che lo interpello è laconico: “Non ci stanno capendo un cazzo”. Ma da capire al festival di Sanremo cosa c’è?

Max Del Papa, 16 febbraio 2025