Squalificare l’avversario, vizietto degli illiberali

Quel vizio italico di liquidare gli avversari politici con un’etichetta in cui non si riconoscono

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Un osservatore imparziale delle vicende italiane da un secolo e mezzo rileva la presenza di un costume di casa duro a morire, l’uso esclusivo del bianco e nero sulla tavola dei valori politici. Dal pericolo nero: il Vaticano che rema contro l’Italia, non rassegnato al “maltolto”; al pericolo rosso: le classi sovversive e pericolose; dal nazionalismo, che ci riporta alle tribù, all’internazionalismo, che parla di “Patria di lor signori”. Dal populismo, che corrompe la democrazia, all’euroglobalismo, che cancella storia e tradizioni: è un continuo vivere conia sirena d’allarme, Annibale è alle porte!

Un prestigioso columnist del Corriere della Sera ha scritto che i nostri sovranisti «vorrebbero che l’Italia spezzasse i suoi storici legami con l’Europa e con gli Stati Uniti per scivolare nell’area di influenza di grandi potenze autoritarie». Conosco storici e filosofi del diritto, commentatori politici e semplici cittadini che condividono molte tematiche etichettate come “sovraniste” ma non hanno nessuna intenzione di divorziare dall’Europa: mi capita spesso di non condividere le loro argomentazioni ma fame la quinta colonna dell’autocrate russo che incombe sul vecchio continente mi sembra per lo meno eccessivo.

Il fatto è che non ci si rassegna all’idea che un “liberale (quando vince) vince ai punti mai per ko”. Con questa metafora, intendo dire che in politica si confrontano opinioni diverse non il Vero e il Falso e che le opinioni rispecchiano esigenze, bisogni, speranze, timori etc. che nascono da esperienze molteplici e che si traducono in congetture e aspettative diverse. È ancora tollerabile il ricorso alla praefatio ad Hitlerum ma non può esserlo sostituire al rilievo critico: «questo discorso porta al nazismo» con il giudizio apodittico: «la tua è una tesi nazista!»

Come storico delle dottrine politiche ho avuto spesso modo di imbattermi in opinioni (la “doxa” di Platone) assunte come verità. Non c’è quasi studioso di Tocqueville che, riflettendo, sulla sua critica – indubbiamente geniale – dello statalismo non si sia sottratto alla tentazione di scrivere una “variazione sul tema” della preveggenza del pensatore normanno. Sennonché nella Francia dell’800 troviamo anche (stranamente?) dei difensori della “centralisation” come l’amico e traduttore di John Stuart Mill, Charles Dupont-White-liberale statalista che, a differenza di Tocqueville fu da subito avverso a Luigi Bonaparte e al suo colpo di Stato: li ignoreremo?

Un caso analogo abbiamo in Italia: quanta retorica sull’antisabaudismo di Carlo Cattaneo, sulla sua polemica con l’unitario Giuseppe Mazzini, sulle sue pagine roventi contro l’unità d’Italia fatta nel sacrificio delle autonomie. Abbiamo tutti meditato sui suoi scritti ma quanti hanno dedicato la stessa attenzione ai biechi unitari? Ci sono antologie dei federalisti italiani ma non ce n’è neppure una che illustri le ragioni di quanti (liberali, conservatori, democratici) non condividevano le idee del Gran Lombardo. In un saggio, Antipolitica. E se mettessimo al bando la parola?, – v. il fascicolo di “Paradoxa” di gennaio/marzo, L’eterno crepuscolo della politica a cura di Marco Valbruzzi – ho stigmatizzato il vizio italico di liquidare gli avversari politici con un’etichetta in cui non si riconoscono: ormai definire una tesi come “antipolitica” dispensa dal prendere in considerazione ciò che vi si sostiene.

Per rendersene conto basta leggere gli editoriali del Foglio, che oggi in questo campo “a il grido”. In realtà, nel costume di casa c’è la pretesa di fissare i punti dell’ordine del giorno del dibattito politico. In base ad essa, ci sono questioni su cui, in linea teorica, non si dovrebbe neppure discutere, giacché farlo costituirebbe un vulnus per i valori più alti della democrazia liberale, regredire a un’etica tribale e tradizionalista. Tipico il caso dell’accoglienza: richiamare i confini (la cui difesa era il compito dello Stato in illo tempore), il pericolo corso dall’identità culturale in seguito a una massa di immigrati di altre culture, i costi economici della generosità, significa incorrere nell’esecrazione delle classi dirigenti responsabili, dell’establishment e dei suoi giornali, del mainstream culturale, di giuristi, economisti, filosofi, teologi etc..

Non potendo zittire i barbari finché siamo in democrazia, resta il dovere di squalificarli moralmente e intellettualmente. Credo che questa sia la fine non solo della democrazia (alla lunga la squalifica facendo perdere ogni credibilità agli avversari politici finisce per allontanarli dal teatrino della politica) ma dello stesso liberalismo, impensabile senza la libertà di ciascuno di dire la sua sui grandi problemi della comunità politica.

Tornando al nostro esempio, se non si riconosce a un paese il diritto di interrogarsi sulla propria identità, di stabilire chi si vuole accogliere e a quali condizioni, di esercitare (o almeno tentare) il controllo dei cambiamenti indotti dall’essere in Europa, dalla globalizzazione, dall’impatto delle culture, cosa rimane dell’Autonomia e della Dignità?

In democrazia, il valore più alto non è la qualità di una decisione: gli elettori possono sbagliare, se è vero che nel consegnare il governo ai fautori della Brexit gli Inglesi hanno fatto male (ma chi può dirlo?); è il diritto indisponibile di scegliere in quanto tale: un diritto che non può essere “preso sul serio” se si pensa che certe scelte siano oggettivamente regressive e immotivate mentre altre siano giuste e corrette. Senza il sospetto scettico che il mio avversario potrebbe aver ragione ed io torto, la società aperta poggerà sempre su basi fragili.

Dino Cofrancesco, Il Dubbio 26 maggio 2020

 

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