Tim, cosa c’è dietro la scalata degli americani

Il fondo Kkr ha deciso di scalare Tim, il gruppo ha un valore di Borsa di poco più di 7 miliardi

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Uno dei più grandi fondi del mondo, Kkr, ha deciso di scalare Tim, la prima società di tlc italiana, con una classica operazione di mercato: un’offerta pubblica di acquisto. Il gruppo ha un valore di Borsa di poco più di 7 miliardi. Noccioline, nel mondo finanziario. E gli americani offrono per l’intero capitale quattro miliardi di premio, e cioè 11 miliardi. Oggi in Borsa il titolo farà un bel balzo. Ma occorre sempre considerare che esso era ai minimi. Kkr sarebbe disponibile, una volta visti i conti, ad andare fino in fondo e ad accontentarsi anche del 50% più un’azione. Insomma di comandare. Più che una scalata sarà un’avventura. Altri due fondi anglosassoni, Cvc e Advent, potrebbero essere interessati. E poi gli attuali soci di maggioranza relativa, i francesi di Vivendi, che con il 24% ritengono di essere i padroni, vorranno giocare le loro carte. A proposito, si capisce la loro irrequietezza delle ultime settimane: avevano sentito aria di scalata.

L’azienda per cui si è di fatto aperta un’asta competitiva, è ancora, nel piccolo capitalismo italiano, una bella preda, ma non è che la pallida erede di quella Telecom Italia che il Tesoro privatizzò nel 1997. All’epoca fu ceduto il controllo per quelli che oggi sono 13 miliardi di euro e fu affidata alle incapaci mani di un nocciolino debole di azionisti, in cui primeggiava la Ifil della famiglia Agnelli con un misero 0,6% del capitale. Sono poi arrivati i capitani coraggiosi di Colaninno e Gnutti a rilevarla con un’operazione di mercato, ma con debito mostruoso, grazie all’aiuto della sinistra dalemiana. Poi fu il turno di Marco Tronchetti, mai gradito ai palazzi che contano, e che pur avendo avuto un’idea strategica di come trasformarla, non aveva gli agganci giusti a Roma. Insomma, 25 anni di disastri finanziari ed economici. Era un gioiello: prima della privatizzazione pensava di cablare l’Italia (piano Socrate) e si inventò le ricaricabili gsm prima di tutti al mondo, senza considerare le sue eccellenze tecnologiche.

In attesa di capire come si svilupperà la prossima battaglia su Telecom occorre fare qualche considerazione sintetica di contesto.

1. Difficile pensare che il governo Draghi non fosse al corrente della scalata. Kkr è già presente con il 37,5% nella società di Telecom (Fibercop) che controlla la rete secondaria (quella che porta il doppino o la fibra dalla strada a casa). Il presidente della Telecom, Salvatore Rossi, a cui è stata consegnata l’offerta, nella sua precedente vita era il direttore generale della Banca d’Italia, da cui proviene il premier. Le telecomunicazioni sono comunque regolate e sottoposte a poteri speciali dell’esecutivo con cui non conviene litigare. Kkr fa parte di quella finanza americana i cui ambienti sono, come scrivono Lodovico Festa e Giulio Sapelli in un libro appena uscito, i punti di riferimento geopolitici del premier.

2. Gli americani sono stati tenuti in minoranza (nonostante l’esborso di 1,8 miliardi) nella rete fissa di Telecom. Un altro Fondo, Macquarie, è in minoranza nel secondo gestore di rete fissa, la Open Fiber, che ha come azionista di maggioranza la Cassa depositi e prestiti. Che con il 10% è presente anche in Tim. Facciamola breve: se Kkr dovesse acquistare Tim, diventerebbe di fatto proprietaria della rete, anche se oggi direttamente è minoranza. A quel punto si avvicina o si allontana il gestore unico della rete?

3. I fondi europei destinati alla rete in fibra e annessi valgono 7 miliardi. È del tutto evidente che il vero business nel futuro, anche grazie ai fondi pubblici, è là. Lo Stato con la sua articolazione guidata dal liberale Scannapieco come si comporterà? Da una parte la concorrenza aiuta innovazione e cura del servizio, dall’altra si rischiano la duplicazione di investimenti e costi e si alimenta la scarsa attenzione per le aree meno redditizie. Tutte questioni che una Tim americana renderà ancora più evidenti.

4. Telecom dalla privatizzazione ha cambiato troppe pelli, troppi manager, sembra una proxy del governo italiano. Si può immaginare una grande azienda redditizia, in un mercato super concorrenziale, senza una continuità di guida e di strategia? Difficile pensarlo. Certo il debito è una zavorra, ma pensare di cambiare tutto ogni triennio, vuole dire uccidere qualsiasi intrapresa.

5. Qualcuno parlerà di svendita di attivi italiani. Occorrerà segnalare loro che oggi i primi azionisti sono francesi e il mercato è fatto di fondi per lo più internazionali.

Nicola Porro, Il Giornale 22 novembre 2021

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