Ubi e Banco Bpm, perché il matrimonio è diffiicile

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Le banche d’affari vorrebbero, appunto, fare affari il prima possibile. E sanno inoltre che oggi non c’è nessuno al governo che si possa mettere di traverso. Ecco perché stanno fiorendo ipotesi su ipotesi di un nuovo risiko bancario in Italia.

È partita Goldman Sachs che ha insinuato la fattibilità di un’operazione di fusione tra Ubi e il Banco Bpm, con risvolti possibili di acquisto tattico sulla prima. La banca guidata da Victor Massiah, Ubi, è in ottima forma: è riuscita a digerire le etrurie e ad amalgamarle rapidamente; ha una governance basata sulla presenza di imprenditori doc e ha distribuito ai propri azionisti più utili di quanto abbia loro recentemente richiesto. Massiah fa da dodici anni il ceo bancario e fino ad ora non ne ha sbagliata una.

Anche il suo coetaneo Giuseppe Castagna sta gestendo bene la fusione tra Bpm e Banco e con l’arrivo alla presidenza di Massimo Tononi, ha anche le spalle più larghe in un certo establishment italiano. Il Banco Bpm ha un patrimonio superiore a Ubi, ma ha una redditività inferiore: in Borsa vale circa il 10 per cento di capitalizzazione in meno.

Ma non sono i numeri che rendono, oggi, difficile il matrimonio. È la cosiddetta «governance». Ci sono due galli per un solo pollaio, se ci permettete l’irriverente battuta per due banchieri doc. Non c’è un buon motivo per il quale gli azionisti di Ubi dovrebbero mollare il loro consigliere delegato.

E non c’è evidentemente nessun motivo per Castagna di fare un passo indietro, proprio ora che si è portato a casa la conferma. Entrambi i gruppi in primavera presenteranno i loro piani industriali, e, a meno, di sconvolgenti novità, non sarà facile assistere ad un fidanzamento.

Eppure sul mercato e nei palazzi che contano, circola il più forte dei motivi per i quali i rumors delle banche d’affari, assumono un peso diverso. Il primo gruppo italiano, tra i più solidi in Europa, e cioè Intesa Sanpaolo, è sola.

Ci spieghiamo meglio, ma senza tante sofisticate analisi da finanzieri. Ebbene Unicredit non è più considerata da tempo una banca su cui il sistema italiano possa contare. Ma d’altra parte, Carlo Messina, non può fare tutto. È necessaria un’altra istituzione, di dimensioni paragonabili, e con una prospettiva nazionale. È ciò su cui lavorano da tempo quei poteri finanziari che sono rimasti in questo Paese. Lo spazio c’è e viaggia ovviamente per la direttrice Ubi, Banco Bpm e se possibile Bper.

È molto più probabile che i veri giochi si aprano l’anno prossimo. Nel 2021 il Tesoro metterà in vendita la sua partecipazione di poco inferiore al 70 per cento del Monte dei Paschi di Siena.

È prematuro pensare che cosa possa succedere. Ma è certo che quella potrà essere una buona occasione per la nascita di un gruppo bancario più grande, in cui Ubi e Banco Bpm potrebbero giocare un ruolo insieme o separati. Sempre che Messina, come fonti senesi ci confermano, non voglia dare un’ulteriore zampata in Italia (Antitrust permettendo).

Insomma il mercato del credito italiano oggi, come per il resto delle banche europee, deve fare i conti con i tassi negativi e con il conto economico, ma si prepara a cambiare faccia. Non subito. Ma la partita c’è.

Nicola Porro, Il Giornale 25 gennaio 2020

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