Ucraina, tutte le colpe della Nato

L’azione di Putin è condizionata pure da un riflesso difensivo contro l’espansione a Est della Nato

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Giustificare l’invasore? No. Comprendere come si è arrivati alla guerra, però, non solo è lecito, ma è anche doveroso. L’alternativa è rimanere prigionieri dell’isterica narrativa liberal: dell’epopea delle donne in armi “contro il patriarcato” (La Stampa), al filone psicologico sul Vladimir Putin folle, in fuga dalla realtà per paura del virus, addirittura affetto da long Covid. Indubbiamente, nella dottrina del Cremlino, giocano la loro parte le ambizioni imperialiste. Ovvio, non si tratta di uno sconclusionato disegno di egemonia globale, ma di sicuro allo zar farebbe comodo riscrivere l’architettura securitaria postsovietica, ristabilire un’area d’influenza regionale, anche per poter trattare su livelli meno impari con quello che può diventare il suo partener strategico – Pechino.

Tuttavia, Mosca è condizionata pure da un riflesso difensivo nei confronti di quella che ha percepito come la crescente minaccia dell’espansione a Est della Nato, talora per interposta Unione europea. Non è, banalmente, un’ossessione di Putin. Dopo il crollo del Muro di Berlino, Michail Gorbaciov ottenne dai governi occidentali l’assicurazione che la Nato non si sarebbe “mossa di un millimetro” verso Oriente. Così non è stato: a partire dagli anni dell’amministrazione Clinton, l’Alleanza atlantica ha reclutato sempre più Paesi dell’ex Urss (Repubblica ceca, Ungheria, Polonia, alcune Repubbliche baltiche, Romania, Slovenia, Slovacchia eccetera). Dai primi anni Duemila, poi, le mire della coalizione occidentale si sono concentrate anche sull’Ucraina.

Così, dietro la rivoluzione arancione del 2004, che portò alla caduta del governo filorusso e al trionfo elettorale di Petro Poroshenko, pro Europa e Usa, pare ci fossero stati interventi diretti e finanziamenti del Dipartimento di Stato americano, oltre che di varie Ong, in parte legate al filantropo di origini ungheresi, George Soros. Quest’ultimo rivendicò altresì un ruolo importante nel sostegno alle proteste di piazza Maidan del 2013-2014, che segnarono il secondo rivolgimento filoccidentale e la cacciata definitiva di Viktor Janukovych, presidente amico di Mosca.

Chiariamolo: in più occasioni il popolo ucraino ha espresso la propria preferenza per un percorso di occidentalizzazione, di adesione all’Ue e di avvicinamento alla Nato. Probabilmente, irretito dalla convinzione di avere ormai le spalle coperte dall’America. Però bisogna essere realisti: durante la guerra fredda, ad esempio, nessuno considerava particolarmente scandalosa la neutralità di Finlandia e Austria, cioè l’esistenza di Stati cuscinetto che attenuassero la percezione di minaccia da parte dell’Unione sovietica. È comprensibile che Kiev rivendicasse il diritto di decidere autonomamente il proprio destino; l’indipendenza politica e militare, tuttavia, comporta conseguenze sugli equilibri di potenza e – diciamocelo – sulla pace mondiale. È un dato di fatto con cui bisognava fare i conti per tempo.

Dal canto suo, la Nato ha garantito di volersi allargare semplicemente per dare seguito alle richieste volontarie dei Paesi dell’Est, ma di non stare ordendo alcuna trama offensiva nei confronti della Russia. Questo messaggio, però, a Mosca non è passato. Esattamente come l’Alleanza atlantica aveva rotto l’accordo tra galantuomini strappato da Gorbaciov, così, hanno sempre creduto al Cremlino, avrebbe potuto mutare le proprie intenzioni, una volta installata in forze ai confini russi. Non si tratta soltanto dell’ombra proiettata da truppe e missili; Putin temeva anche una destabilizzante importazione del modello delle rivoluzioni colorate. Insomma, aveva timore di una sorta di golpe bianco a Mosca, foraggiato dagli Stati Uniti, con il contributo di Bruxelles (che comunque era stata sostanzialmente marginalizzata ai tempi di Euromaidan, tanto che la diplomatica Victoria Nuland, per rivendicare il primato di Washington nel teatro ucraino, disse all’ambasciatore a Kiev: “L’Ue si fotta”).

Ad alimentare le angosce di Mosca contribuiscono gli otto anni di violenze e soprusi subiti dai russofoni nel Donbass. L’episodio più clamoroso fu il massacro di Odessa, nel maggio 2014, quando le milizie neonaziste che avevano partecipato alla rivolta di Euromaidan diedero fuoco alla Casa del sindacato, dove si erano asserragliati manifestanti antioccidentali, insieme a persone completamente estranee agli scontri. Una strage: tra i corpi delle vittime, morte carbonizzate o linciate mentre cercavano di scappare dall’edificio, furono rinvenuti persino i cadaveri di donne incinte, seviziate e stuprate. Quando parla di difesa dei russofoni e “denazificazione” dell’Ucraina, insomma, Putin attiva un dispositivo retorico meno farneticante di quanto appare all’opinione pubblica delle nostre latitudini.

Queste sono le premesse storiche di un conflitto che, a intensità variabile, dura da parecchio tempo. La situazione non è semplice da gestire: un’eccessiva arrendevolezza autorizzerebbe lo zar ad alzare il tiro (verso Moldavia, Polonia e il Baltico) e trasmetterebbe alla Cina – a proposito delle mire su Taiwan – un messaggio pericoloso. Al tempo stesso, il coinvolgimento dell’Occidente in Ucraina può innescare un’escalation dagli esiti imprevedibili. Su un aspetto, infatti, il ministro russo Sergej Lavrov ha ragione, che egli ci piaccia o meno: una terza mondiale sarebbe nucleare. Al di qua e al di là di questa nuova cortina di ferro, siamo disposti al reciproco annientamento?

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