I vizi non sono crimini (Lysander Spooner)

Una serie di riflessioni libertarie dell’illegittimità dell’intervento governativo sulla moralità degli individui

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Lysander Spooner

Lysander Spooner può a buon diritto essere considerato il padre fondatore del movimento libertario. Antiproibizionista e abolizionista, difese i diritti fondamentali degli individui dagli eccessi del potere governativo sia con le parole sia coi fatti, sfidando nel 1844 il monopolio postale con la creazione di un servizio privato, l’American Letter Mail Company.

Nel volume I vizi non sono crimini (Liberilibri) sono raccolte le sue più importanti considerazioni filosofiche: riflessioni libertarie in merito alla illegittimità di un intervento governativo sulla moralità degli individui e sul rapporto che intercorre tra l’individuo e la collettività, che per ovvi motivi risuonano ancor oggi attuali. La sola possibile base di un governo che sia giusto e di un esercizio consono delle leggi è, secondo Spooner, l’individuo con i suoi singoli diritti naturali. Questi prevedono che entro i limiti della propria vita, del proprio corpo, dell’uso che fa di ciò che gli appartiene, l’individuo sia assolutamente libero.

Tutto ciò che dall’esterno interferisce con questo diritto naturale può e deve essere chiamato “crimine”. La prevenzione e la punizione di tali crimini è l’unica funzione accettabile delle legislazioni e dei governi. Ma per interferenza non si intende soltanto l’esercizio bruto della forza di un singolo contro un altro, un danno arrecato volontariamente; può essere considerato un crimine anche l’obbligo, la proibizione, tutto ciò che pretende di dirigere l’individuo nella sua personalissima scelta del modo in cui condurre la sua vita. In tal senso, i vizi, quando intesi come errori dell’individuo a svantaggio di se stesso, fanno parte della sfera del diritto alla ricerca della felicità. Vietare i vizi, scambiandoli per crimini, è invece il vero crimine, in quanto limitazione della libertà.

È certamente giusto, dunque, che gli individui siano coadiuvati nella difesa del diritto naturale da parte di una legislazione. È giusto che chi viola il diritto di qualcuno alla vita o alla proprietà venga punito. Ma la giustizia, in quanto principio che ci permette di distinguere che le suddette azioni siano giuste e di individuare i crimini, è una legge naturale; è una legge che gli individui conoscono in maniera intuitiva e che precede i governi, non dipende da essi. È una legge naturale che ha bisogno d’essere custodita, non ampliata. È il solo “principio politico” che non sia una “sciocca fantasia”.

Secondo Spooner, allora, una legislazione, come corredo inutile e dannoso del diritto naturale, è «la presa di possesso di un uomo o di un gruppo di uomini del diritto di abolire tutti i diritti di natura, tutta la naturale libertà degli altri […] la presa di possesso del diritto di bandire dal mondo il principio dei diritti umani». D’altronde, i diritti degli individui non si sommano. I diritti di un gruppo di persone non hanno maggiore forza dei diritti di un singolo. La giustizia non può essere basata sui diritti della collettività, perché questi, semplicemente, non esistono come diritti naturali.

Inoltre, la collettività e la maggioranza non sono reali interlocutori degli individui, perché questi possono stabilire relazioni e stipulare patti soltanto tra loro, soltanto tra pari. Ogniqualvolta si assiste alla defezione di un individuo a favore di un gruppo, è lecito il sospetto che ciò avvenga per timore, o per difesa di sé in risposta ad una minaccia. Secondo Spooner, il rispetto delle leggi (ad esempio il pagamento delle tasse) non è sintomo di un’adesione entusiasta e volontaria, ma la resa di fronte ad un gruppo di ladri, di briganti, di usurpatori che intimano “la borsa o la vita”.

Accettare di essere vincolati alle decisioni di un presunto “governo della maggioranza” vuol dire in realtà assecondare una minoranza che si è arrogata il diritto di «assoggettare tutti gli altri al proprio volere e al proprio servizio». Per questo motivo, scrive Spooner, «non c’è differenza di principio – bensì solo di grado – tra la servitù politica e quella degli schiavi».

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