La censura contro i russi

Wimbledon, Djokovic contro la cancel culture: “I tennisti russi non hanno colpe”

Il tennista numero uno al mondo commenta la decisione di escludere gli atleti russi dal torneo più importante

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Wimbledon ufficializza: i tennisti russi e bielorussi non potranno partecipare al torneo tennistico più importante di tutti. La motivazione è di puro carattere politico: “In questo modo, Putin non potrà usare il più iconico dei tornei per legittimare gli orrori che sta infliggendo al popolo ucraino”, si legge in una nota del ministro dello Sport britannico, Nigel Huddleston. In virtù di questa decisione, il prossimo luglio, non potranno prendere parte al grande Slam il russo Daniil Medvedev, numero due del mondo, e la bielorussa numero quattro, Aryna Sabalenka.

La decisione è stata assunta dal governo Uk, nonostante la condanna dell’invasione da parte di entrambi gli atleti, pur senza dichiarare esplicitamente le responsabilità di Mosca. Il caso rientra all’interno di una cornice che ben conosciamo anche in Italia. A pochi giorni dall’inizio dell’invasione di Putin, infatti, l’Università Bicocca di Milano decise di cancellare un corso sul grande autore russo Dostoevskij. Nello stesso periodo, il celebre direttore d’orchestra, Valerij Abisalovič Gergiev, veniva sollevato dalla direzione dell’opera “Dama di picche”, che si sarebbe dovuta inscenare al teatro La Scala.

I musicisti, i letterati, gli atleti, i semplici cittadini russi sono censurati in quanto russi. La cultura e lo sport vengono rigidamente selezionati secondo criteri di nazionalità e provenienza; proprio il contrario di quanto affermavano estenuanti messaggi, in nome del pluralismo, del cosmopolitismo e dell’integrazione, propinati dalle frange politically correct. Oggi, nel tentativo di combattere la guerra in Ucraina, l’Occidente si sta progressivamente “russificando”, rischiando di cadere nella trappola autoritaria che, guarda caso, trova a Mosca il proprio pane quotidiano: censura, pensiero unico, illiberalità.

Prende posizione, ancora una volta, il numero uno al mondo, Novak Djokovic: “Una decisione folle. Quando il governo interferisce con lo sport, il risultato non è mai buono”. E prosegue: “Essendo cresciuto durante i conflitti civili che hanno seguito il crollo della Jugoslavia, sono anch’io figlio della guerra, non la sosterrò mai. Ma i tennisti, gli atleti non c’entrano niente”. Dello stesso pensiero del tennista serbo è anche l’Atp, definendo “un precedente dannoso” la scelta di escludere i tennisti in base alla loro nazionalità, e non secondo il più classico dei criteri di selezione sportiva: la classifica.

In questi ultimi mesi, Novak Djokovic è stato la spada di Damocle del pensiero unico mainstream. Prima contrario a qualsiasi forma di discriminazione attraverso obblighi vaccinali e passaporti verdi; oggi, in aperta polemica con chi vuole imporre sanzioni ai russi. Eppure, in entrambi i casi, pare essere il fuoriclasse serbo l’unico ad affermare i principi che più si avvicinano al liberalismo occidentale. Nel primo caso, Djokovic sosteneva la necessità di riservare la libera scelta vaccinale al singolo atleta, senza giudicare un tennista dal possesso o meno di una certificazione; nel secondo, ricordando come la storia, la cultura, la tradizione liberale dell’Europa, con la quale essa ha sconfitto il blocco sovietico, si fondino proprio sul pluralismo delle idee, sul “melting pot” di derivazione newyorkese, sulla sana competizione tra tutti gli atleti mondiali, indipendentemente dalla propria nazionalità ed identità.

Il procedimento di cancel culture, sempre di origine americana, sta portando l’alleanza atlantica a seguire l’altra riva del fiume, quella che più la avvicina malauguratamente al blocco dei regimi asiatici, al mondo dell’unanimità, delle responsabilità dei genitori che ricadono sui figli. Paradossalmente, la risposta più grande alle violenze perpetrate dal regime putiniano sarebbe quella di permettere a tutti gli atleti, musicisti, autori russi di alzare ancor di più la propria voce, la propria possibilità di partecipare da protagonisti nella vita sociale e culturale europea, di raccontare al mondo le differenze tra ciò che è una comunità coperta – Russia – ed un’altra aperta – Europa.

Quella libertà sembra ormai sostenuta da pochi eletti, ma è pur sempre doveroso difenderla. Si badi bene: i censurati di oggi sono i russi, quelli di domani potremmo essere noi.

Matteo Milanesi, 21 aprile 2022

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