Società

Asterischi e schwa: altro che “inclusività”, è la dittatura del gender

Con la scusa della non esclusione vogliono imporci il loro nuovo modello di linguaggio

schwa politicamente corretto © AndreyPopov tramite Canva.com

Se vuoi controllare una società la prima cosa che devi fare e controllare il suo linguaggio. Per prima cosa vanno eliminati termini considerati politicamente scorretti. Certo, è un lavoro lungo e ci vuole del metodo. Ma un caso recente fa capire la direzione in cui si sta andando. Penso alla recente sentenza della Cassazione (22 maggio 2023, n. 24686) con la quale di fatto si vieta in Italia l’uso della parola “clandestino” perché ritenuto discriminatorio. Bisognerà modificare tutti i dizionari della lingua italiana perché uno dei significati del vocabolo è proprio “chi ha passato una frontiera illegalmente”. Ma questi sono ancora i casi più semplici.

Per controllare una società vanno introdotte d’arbitrio nuove regole, come ad esempio, l’uso di asterischi e di schwa, in modo da essere “inclusivi” e rispettosi della “dimensione di genere”. È questa una tendenza diffusa, forse ormai irreversibile.
Beninteso, lungi da me voler discriminare qualcuno sulla base del sesso, come sulla base “di razza (!), di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (per riprendere alla lettera il testo dell’articolo 3 della Costituzione), ma discrimino qualcuno sulla base del sesso se dico che, dal punto di vista biologico, esistono due sessi anche se molteplici possono essere gli orientamenti sessuali delle persone? Perché devo essere costretto, ad accettare un’ideologia, l’ideologia del gender, e quindi credere che esistano più generi e più sessi e che si possa in qualsiasi momento passare da un’identità sessuale ad un’altra?

L’ideologia del gender si basa fondamentalmente su questo: il sesso in natura non esiste, quello che esiste è solo il genere che ciascuno socialmente si costruisce come vuole. Insomma, tutt* nascono come esseri umani, poi col tempo un* decide di essere donna o uomo o di essere non binario e dunque di cambiare sesso durante la sua vita, anche più volte. Alla nascita si potrà solo “assegnare” il sesso che poi la persona crescendo potrà decidere di mantenere o modificare come crede. Un po’ come uno dei direttori della filiale inglese della Silicon Valley Bank che in certi giorni si presenta in ufficio vestito da donna e si fa chiamare “Pippa” e in altri giorni si veste da uomo e si fa chiamare “Philip”. Mah.

Nelle università ci sono sempre stati “i professori” e “gli studenti” e oggi non si possono più usare questi vocaboli perché non sarebbero inclusivi? Ci rendiamo conto dell’assurdità a cui stiamo arrivando accecati, per dirla con Marx, da una “falsa coscienza” ideologica? E siamo poi certi che il maschile plurale sia veramente esclusivo? È quello che intendo ora contestare. Dal punto di vista grammaticale e glottologico ad essere esclusivo è il femminile plurale, mentre ad essere inclusivo è proprio il maschile plurale: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, per riprendere ancora la nostra Costituzione. “Tutti i cittadini” significa maschi, femmine, omosessuali, lesbiche, transessuali maschili e femminili, ermafroditi, non binari, gender fluid, genderqueer, pangender, bigender, androgini, donne XY, travestiti, e mi scuso con tutti gli altri generi che dimentico.

Cosa c’è di più inclusivo? È da notare che chi considera e tende a imporre l’interpretazione del genere maschile come esclusivamente maschile (perciò da ridimensionare rispetto all’attuale presunto “maschile sovraesteso”) si trova a operare per primo una restrizione che nessun legislatore ha mai inteso: interpretare i testi di legge come se fossero riferiti solo a uomini maschi. Sul piano giuridico si tratta di un’innovazione drammatica e non autorizzata da alcuna decisione politica. Alcuni paesi, soprattutto di lingua tedesca, (Germania, Austria, Svizzera e anche il Sud Tirolo) di recente hanno deciso di non adeguare al linguaggio gender tutti gli atti giuridici (Gender-Stern bleibt draussen in Börsenblatt, 12 luglio 2024).

A costo di apparire pedanti, facciamo un po’ di glottologia storica, siamo pur sempre “professori”. “Maschile” è, senza dubbio, una denominazione… maschilista. In realtà non esiste nessuna lingua che abbia un genere maschile e uno femminile senza un genere sovraordinato a entrambi. È impossibile sul piano della struttura della lingua. Non è un caso che oggi lo si voglia “fabbricare” daccapo: ma la verità è che già esiste questo genere sovraordinato, solo che è stato chiamato per maschilismo “maschile”. Chi prende sul serio la denominazione di “maschile” non fa altro che adeguarsi a questo maschilismo. Un genere grammaticale “comune” è sempre esistito ed è all’origine di quello poi chiamato “maschile” nelle grammatiche delle lingue indoeuropee storiche (e non solo). Prendere inoltre alla lettera il termine grammaticale “maschile” senza distinguere il linguaggio dal metalinguaggio, ossia la lingua che descrive la lingua stessa, è epistemologicamente sbagliato.

Conclusione: è errata la convinzione che il “maschile” sia davvero un “maschile sovraesteso” quando invece non è realmente neppure maschile. Molto più semplicemente, andrebbe chiamato – come peraltro già fanno i linguisti – “genere comune”: come tale, infatti, funziona (da quando le lingue neolatine hanno abbandonato la distinzione indoeuropea fra neutro – di per sé “inanimato” – e animato, il cosiddetto “maschile” che tale non è). Non bisogna dimenticare che il genere grammaticale non è esclusivo: solo gli oggetti inanimati e (da quando non esiste più il neutro nelle lingue neolatine) i maschi hanno un solo genere (il “genere comune”, appunto), mentre le femmine hanno il privilegio di avere diritto a tutti i generi (due nelle lingue neolatine; tre in latino, in tedesco e tantissime altre lingue). Il genere femminile è riservato alle femmine; il “genere comune” è appunto comune a tutti. È questo il genere inclusivo. Elementare? Sembrerebbe di no, se si vogliono imporre questi cambiamenti linguistici, solo per finalità ideologiche.

Non ho niente in contrario a discutere con un sostenitore dell’ideologia gender, ma non vedo perché dovrei conformarmi ad un’ideologia che non condivido, modificando addirittura, come ora viene richiesto, il mio modo di parlare e di scrivere, che poi non è il “mio” modo, perché è semplicemente la mia lingua naturale che semplicemente rivendico di poter continuare a parlare, senza per questo voler discriminare nessuno.

Paolo Becchi, 24 luglio 2024

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