La virologa Li-Meng Yan denuncia il cover-up di Pechino: il regime ha taciuto e mentito sul coronavirus

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C’è una storia che alla stampa mainstream non piace raccontare. È una storia di censure, di minacce, di insabbiamenti. Una storia di medici morti, di giornalisti scomparsi, di critici arrestati. Su Atlantico abbiamo cominciato a parlarne fin dall’inizio, provando a far luce sull’origine – non solo sanitaria ma anche politica – della grande tragedia globale che stiamo ancora vivendo. Non si può raccontare il coronavirus senza spiegare cosa è successo in Cina tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020 ma pochi sembrano davvero disposti a farlo. Quando i dissidenti del socialismo reale denunciavano la realtà dei “paradisi proletari” dell’Est, in occidente venivano spesso accolti con diffidenza o derisione: non saranno le “storture” della prassi a mettere in discussione la bontà del sistema. Quel che l’intelligentsia da salotto non capì fino a molto tempo dopo (e una parte deve ancora arrivarci) è che la “stortura” era il sistema stesso. Qualcosa di simile sta accadendo oggi con la Cina capital-comunista: certo, ci saranno stati anche errori ed omissioni nel controllo dell’infezione, ma chi è senza peccato scagli la prima pietra; e poi guardate come hanno messo a posto le cose in un batter di ciglia. Non torneremo qui sulla narrativa filo-cinese alimentata in Europa da redazioni compiacenti e gruppi parlamentari soggiogati. Però vale la pena tornare su quei due mesi decisivi, costati centinaia di migliaia di morti probabilmente evitabili se, invece di un partito unico la cui priorità era neutralizzare ogni fuga di notizie, avessimo avuto a che fare con uno stato di diritto interessato davvero alla salute dei suoi cittadini e alla trasparenza informativa.

Il 28 aprile 2020 la dottoressa Li-Meng Yan si imbarca su un volo della Cathay Pacific in direzione Stati Uniti. Virologa e ricercatrice dell’Università di Hong Kong, si occupa da anni degli effetti dei coronavirus sulle cellule umane. Li-Meng Yan, sposata con uno scienziato che lavora nel suo stesso laboratorio, sta scappando. Da sola. Cosa giustifica quella fuga precipitosa? Di cosa ha paura? Per capirlo, facciamo un passo indietro, proprio a quel fatidico dicembre dell’anno scorso, quando un suo superiore le affida uno studio sulla moltiplicazione di casi di un nuovo virus nella Cina continentale. Non potendo recarsi direttamente nelle zone colpite (la Cina proibisce l’ingresso di ricercatori “stranieri” sul suo territorio), Li-Meng Yan comincia a chiedere informazioni ai suoi colleghi sul posto. Il 31 dicembre riceve una conferma decisiva: l’infezione si trasmette tra persone, attraverso le vie respiratorie. Mancano tre settimane alla prima ammissione ufficiale in tal senso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), imbeccata da Pechino. Quando comunica il risultato dell’indagine al suo supervisore, quel Leo Poon che insieme a Malik Peiris è una delle estensioni dell’Oms a Hong Kong, riceve come risposta il suggerimento di tornare al lavoro e di tenere la bocca chiusa. Sono gli stessi giorni in cui in Cina comincia la caccia alle streghe, la persecuzione dei medici accusati di diffondere “falsi allarmi” nella comunità scientifica: Li Wenliang, che morirà di Covid-19 un mese dopo, e Ai Fen, sono le vittime più illustri della censura di Stato. Intanto, i responsabili dei laboratori incaricati delle analisi ricevono dalle autorità centrali l’ordine di distruggere i campioni in loro possesso e di interrompere le ricerche. Qualsiasi fuga di notizie sarà riportata agli organi competenti. Il 3 gennaio, proprio mentre si isola la sequenza genetica completa, dagli uffici del Ministero della sanità di Pechino arrivano direttive vincolanti sull’utilizzo dei campioni: nessun invio ai laboratori senza autorizzazione, soppressione immediata di quelli esistenti, divieto di pubblicazione di qualsiasi informazione su test e attività sperimentali. Le fonti di Li-Meng Yan improvvisamente smettono di trasmetterle nuovi dati: “Non possiamo parlarne, ma dobbiamo indossare le mascherine”, le fanno sapere in un messaggio finale. Il 9 gennaio l’Oms, come se nulla stesse succedendo in Cina, attraverso un comunicato ufficiale fa sapere che non esiste il rischio di trasmissione da persona a persona, messaggio che ribadirà cinque giorni dopo e che manterrà invariato fino al 21 gennaio. I medici cinesi, l’intera comunità scientifica del Paese, sanno già da tre settimane che il virus è in piena diffusione. Ma non possono dirlo. La “stortura” che si fa sistema.

A quel punto Li-Meng Yan si sente minacciata. Condivide le informazioni in suo possesso con un blogger di Hong Kong residente negli Stati Uniti ed è proprio su consiglio di quest’ultimo che decide di lasciare il Paese finché è in tempo. Cerca di convincere il marito a seguirla, senza esito: “Ci ammazzeranno tutti”, le risponde lui. Quando arriva all’aeroporto di Los Angeles, due ufficiali della dogana la fermano e la interrogano: è l’occasione per cominciare a raccontare la sua verità, ciò che farà successivamente anche con gli agenti dell’FBI. In questi giorni Li-Meng Yan ha reso nota la sua storia in un’intervista trasmessa da Fox News: “Ho deciso di scappare negli Stati Uniti per dire la verità sul Covid-19. So bene qual è il destino di chi rivela informazioni riservate nel mio Paese”.

Anche se in maniera altalenante, l’amministrazione Trump è stata l’unica a fare la voce grossa sulle responsabilità del governo cinese nell’espansione della pandemia. Testimonianze come questa, se tenute nella giusta considerazione, sono armi importanti nella battaglia contro la narrativa ufficiale imposta da Pechino, secondo cui la gestione della crisi è stata impeccabile, la reazione rapida e il controllo delle conseguenze più che efficace. Ovviamente non sarà Li-Meng Yan a convincere gli scettici del fronte filo-cinese che ha già deciso che il Partito Comunista è una forza del bene a prescindere. Ma l’importanza del racconto della virologa di Hong Kong risiede proprio nella sua non originalità: una fonte esterna, aliena alle logiche politiche e amministrative della Cina continentale, conferma tutti i passaggi che precedenti ricostruzioni avevano già evidenziato, e lo fa attraverso una rete di contatti dentro la comunità scientifica cinese. Ma soprattutto certifica il clima di omertà e terrore in cui, in quelle tre settimane decisive per il contenimento del virus, si trovavano a dover operare medici, virologi e operatori sanitari. Adesso Li-Meng Yan teme per la vita dei suoi famigliari e amici: la polizia ha perquisito l’appartamento dei suoi genitori a Qingdao. L’Università di Hong Kong ha cancellato i suoi dati dai registri ufficiali, negando che la virologa sia attualmente una dipendente del centro (anche se ne è rimasta una traccia in questa pagina web, con data posteriore alla sua fuga dal Paese).

Nulla di nuovo sul fronte dello stato di polizia più vasto del pianeta. Ma il suo messaggio non è diretto a Pechino o ai suoi connazionali, che comunque non potranno riceverlo. La denuncia di Li-Meng Yan è rivolta alle nostre coscienze di cittadini di stati democratici, ai nostri governi, alle nostre istituzioni: il sistema cinese è corrotto dalle fondamenta, la sua prima vittima è la verità e le conseguenze della menzogna riguardano il mondo intero. Qualcuno in ascolto?

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