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Modello Cina: i desaparecidos di Pechino che hanno osato sfidare la censura del regime sul virus

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Mentre l’OMS guarda alla Cina come un modello nella risposta alla crisi sanitaria da coronavirus, e mentre in Italia si sprecano omaggi e ringraziamenti per gli “aiuti” di Pechino, mentre l’intelligentsia europea – con poche e lodevoli eccezioni – ragiona già sulla fine del sistema liberale e si entusiasma per la crescita dell’influenza cinese a livello globale, insomma, mentre sventoliamo entusiasti il nuovo libretto rosso di Xi Jinping, dove Xi Jinping comanda davvero la gente rischia l’incolumità personale e a volte la vita per denunciare quello che noi ci rifiutiamo di vedere: le menzogne deliberate di un regime che ha regalato al mondo la più grave pandemia degli ultimi cento anni. Sono le storie delle retrovie, quelle che non leggerete sui giornali della propaganda, vicende umane di dignità e coraggio spente nel silenzio della censura di stato.

La voce di Li Wenliang, oftalmologo dell’ospedale di Wuhan, è forse la più nota. Già a fine dicembre su WeChat lancia l’allarme: i primi casi accertati di polmonite virale gli ricordano tanto, troppo, la SARS. La polizia lo visita, lui ritratta, non può fare altro. Poi si ammala, viene collegato a un respiratore, un mese dopo muore a causa di quel virus che aveva denunciato per primo e di cui per settimane i funzionari del partito avevano negato prima l’esistenza, poi la trasmissibilità. Con le ceneri ancora calde sul tavolo, il governo si appropria della sua memoria e finge di lanciare un’indagine contro i responsabili locali, rei di non averlo ascoltato a tempo. Una farsa. Alla censura segue la manipolazione, secondo un copione già scritto. Ma, per quanti riconoscimenti postumi decidano di assegnargli, Li Wenliang non sarà mai un eroe del Partito. La foto dei suoi occhi spalancati mentre lotta tra la vita e la morte è l’icona del sopruso e della disperazione, 30 anni dopo il tank man di Tiananmen. Che riposi in pace.

La dottoressa Ai Fen (in foto), invece, non è morta. Non si sa dove sia, è una desaparecida (fa male questa parola, non è vero?), probabilmente arrestata e rinchiusa in una black jail, uno dei buchi neri in cui la dittatura nasconde i suoi prigionieri politici. Nel regime di Xi Jinping anche un medico può trasformarsi in un dissidente senza volerlo, per cadere in disgrazia basta fare il proprio lavoro. La storia di Ai Fen è intrecciata con quella del suo collega Li Wenliang: è lei che pubblica per prima gli esami di laboratorio di un paziente, ricoverato in quei giorni in ospedale con difficoltà respiratorie. Nel rapporto ci sono due parole sottolineate, “SARS coronavirus“. Ai Fen capisce subito che si tratta di una malattia di origine virale con un alto potenziale di trasmissione da persona a persona e ne parla con i colleghi. È l’informazione da cui partirà Li Wenliang per diffondere la notizia del focolaio. Stavolta non è la polizia ma la direzione dell’ospedale a minacciarla. Lei, al principio di marzo, rilascia comunque un’intervista al quotidiano cinese Renwu, dove conferma le sue accuse. L’articolo è ritirato poche ore dopo, su ordine diretto di Xi Jinping, ma continua a circolare clandestinamente. Di questa piccola cinese ora il governo ha paura e per questo l’ha fatta sparire dalla circolazione.

All’elenco dei desaparecidos si aggiungono almeno tre giornalisti, anch’essi coinvolti nel giro di vite del regime sul coronavirusChen Qiushi è un avvocato e attivista trentacinquenne, già noto per la copertura come freelance delle recenti proteste di Hong Kong. Quando Wuhan viene messa in quarantena, parte per l’Hubei dove intervista persone malate o che hanno perso amici e famigliari a causa dell’infezione. Entra negli ospedali e registra immagini dantesche di pazienti abbandonati nei corridoi e completamente disattesi. Pubblica il materiale sul suo canale di Youtube a beneficio di 450.000 sottoscrittori. Il suo scopo è chiaro: smascherare le menzogne del governo sui numeri e sul presunto controllo della malattia. In uno degli ultimi video prima della sua scomparsa lo si vede visibilmente spaventato, seduto sul letto dell’appartamento in cui si è installato, mentre dichiara: “Molte persone qui credono che sarò arrestato. Ma non ho paura. Perché dovrei temerti, Partito Comunista?“. Il 6 febbraio parla per l’ultima volta con la sua famiglia a cui, dopo averlo prelevato, le autorità comunicano che Chen Qiushi è stato posto “in quarantena“. Dalle sette del pomeriggio di quel giorno è irreperibile.

Sulle tracce di Chen Qiushi si spinge fino a Wuhan Li Zehua, un giornalista venticinquenne già conosciuto come presentatore di successo alla televisione di stato (CCTV). Il coronavirus cambia la sua vita. Dopo la scomparsa di Chen rinuncia alla sua carriera come anchorman televisivo e parte per la zona zero. Ne ripercorre i passi, continua le interviste che il suo collega non può più realizzare, visita le case di residenti, lavoratori immigrati e soprattutto obitori. Tanti obitori. Riprende tutto quello che – come impiegato della CCTV – non potrebbe registrare e lo carica sul suo videoblog. Il 26 febbraio, mentre guida verso casa, si accorge di essere seguito. Riesce a raggiungere l’appartamento e a registrare l’ultimo messaggio prima che bussino alla porta: “Non ho infranto nessuna legge e non sono malato“, lascia detto per la sua famiglia, sapendo che verranno a prenderlo e dichiareranno che il suo isolamento avverrà per ragioni di salute pubblica. Inghiottito anche lui dalle segrete della dittatura.

Stessa sorte per Fang Bing, imprenditore di Wuhan convertitosi in giornalista sottotraccia per testimoniare la realtà dell’epidemia. Il suo primo video risale al 25 gennaio, due giorni dopo il lockdown della città, e vi si vedono pazienti circondati da personale sanitario che salutano i loro parenti probabilmente per l’ultima volta, cadaveri avvolti in sacchi e accatastati in prossimità degli ospedali. La realtà senza filtri, quella che a stento vediamo anche in occidente. Fang Bing riprende perfino la scena del suo primo arresto, che precede di dieci giorni quello definitivo: sulla porta di casa si presentano uomini in tenuta anti-contagio per portarlo via; alla sua richiesta di identificarsi gli rispondono: “Vedrai chi siamo quando aprirai”. Pochi giorni dopo viene rilasciato, anche perché le immagini del suo sequestro circolano grazie a Chen Qiushi. Della successiva e definitiva detenzione invece non ci sono testimonianze.

Uno dei critici più prominenti di Xi Jinping, da anni vera spina nel fianco del partito unico, è Xu Zhiyong, attivista per i diritti umani, ex professore di diritto all’università di Pechino e fondatore del Movimento per una nuova cittadinanza. Arrestato nel 2014 per i suoi scritti a favore della democrazia, sconta quattro anni di prigione e quando esce dimostra che la “rieducazione” è servita a poco. Continua la sua attività di promozione dei diritti civili fino a quando, nel febbraio di quest’anno, chiede in una lettera aperta le dimissioni di Xi Jinping, rimproverandogli di aver creato un “nuovo totalitarismo” e di aver permesso la diffusione dell’epidemia a causa dei ritardi nel dichiarare l’emergenza. Vero erede della tradizione liberale incarnata da Liu Xiaobo (morto mentre scontava la pena), Xu Zhiyong viene arrestato a Guangzhou, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, con la scusa di un controllo sanitario. L’accusa, resa nota dalle autorità, è quella di “sovversione contro il potere statale“. Rischia fino a 15 anni di carcere per aver detto la verità. Chissà cosa pensa dei peana che tanti, in occidente, riservano al suo carceriere.

Personaggio più controverso ma cionondimento vittima della recente stretta del governo è l’ex costruttore Ren Zhiqiang, già membro di alto livello del Partito Comunista, diventato negli ultimi anni uno dei principali critici del dominio del partito-stato sulla società cinese. L’occasione per fargliela pagare arriva in seguito a uno scritto in cui critica la gestione della crisi da parte delle autorità cinesi, accusando personalmente Xi Jinping di agire “solo per proteggere la propria posizione e i propri interessi“. Sotto sorveglianza da quando, nel 2016, il suo blog viene chiuso per aver denunciato la sudditanza della televisione di stato ai dettami del PCC, Ren Zhiqiang esce di scena il 12 marzo scorso: pochi giorni fa la conferma della sua detenzione per “serie violazioni della legge e della disciplina di partito“. Un vero e proprio regolamento di conti. 

Infine, Fang Fang. Lei è già una scrittrice prima della tragedia ma il blocco dell’Hubei la rende famosa. Dettaglia sul suo blog la cronaca quotidiana della quarantena di Wuhan, un diario dall’interno della trincea. Con il tempo il suo sguardo si trasforma in rabbia, contenuta, cinese, ma crescente: “L’affermazione secondo cui il virus non si trasmette tra le persone ha convertito Wuhan nella città delle lacrime di sangue e della sofferenza infinita“, scrive in una delle pagine del suo Wuhan Diary. Attorno alle sue riflessioni si formano veri e propri gruppi di discussione su argomenti di portata più ampia dell’emergenza stessa. Un forum inatteso sulla società cinese, ai limiti della censura. “I leaders a Wuhan stanno facendo pressione sui cittadini affinché esprimano la loro gratitudine al Partito Comunista e allo stato, ma è così bizzarro: si governa per il popolo, no?“. Il suo diario sarà pubblicato in inglese da Harper Collins il prossimo agosto. E così è cominciata la campagna di diffamazione nei suoi confronti da parte dei media di stato e dei social gestiti e controllati dalla propaganda. Fang Fang è ancora libera. Ma gli occhi del regime sono da tempo puntati su di lei.

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