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Atleta deride l’avversario. Ma è nera: “Diritto a provocare”

Reese e il gesto della mano davanti al volto di Clark. Il doppio standard del politicamente corretto

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Dal racconto del Corriere non è che si capisca granché, probabilmente per la missione fatale di dover salvare le capre della cronaca con i cavoli della militanza; ma, all’osso, si tratta di questo: due stelline del basket universitario americano, una nera l’altra bianca, si mandano a fanculo davanti a dieci milioni di spettatori, si fanno gesti irridenti, quello con la mano davanti alla faccia per dire scansati, non esisti, non ti vedo, sei una merda, insulto inventato da un lottatore del wrestling e subito adottato dai rapper, dai gangster, da tutti. Perché quando c’è una moda consumistica, i generi vengono travolti.

Il solito doppio standard

Il punto, attorno al quale il Corriere gira, gira, senza entrare mai, è che se lo fa la stellina bianca, la Caitlin Clark, è il trionfo della cattiveria, dell’atleta carognetta, scorretta, tutta gomiti in faccia, disposta a tutto, se lo fa la nera Angel Reese è l’emancipazione, l’uscita dal ghetto, il diritto alla provocazione. E ci senti lo scivolare delle dita cosparse di sapone sulle vetrate della morale. Salvarsi osservando che “il gesto ha diviso l’America”, che “lo sport è lo specchio del paese” è pura tautologia, è fare giornalismo partendo dall’ovvio e arrivando all’ovvio. Di meno ovvio, anche se non certo sorprendente, c’è il consueto doppio standard, ciò che ad una etnia viene censurato, negato, all’altra viene consentito se non esaltato. La solita storia dell’ “io non sono chi volete che io sia”, inventata da Muhammad Ali ma in un contesto tutto diverso, risalente a sessanta anni fa; e via via adottata da sempre più atleti neri, di solito con motivazioni assai meno nobili, del tutto pretestuose, nel palese tentativo di arrivare alla fama, agli sponsor. Peraltro, Ali il razzista lo faceva, almeno sul ring, più coi neri che coi bianchi: Frazier puzza, è un gorilla, uno zio Tom, Foreman è un ritardato, Norton uno sparring partner, che vogliono questi negri?, non sono degni di salire sul quadrato con me.

Politically correct, peggior forma di razzismo

Due atlete già milionarie a vent’anni si sfidano, si insultano, si provocano: ma una sola conserva tutte le ragioni, in base a preconcetti del tutto artificiosi, campati per aria. Qui entra precisamente la problematica del politicamente corretto che è la peggior forma di razzismo, del woke che alla lettera significa svegliarsi ma punta ad addormentare il senso critico: chi li ha impancati questi del Black Lives Matter, la cui fondatrice Patricie Cullors sta nei guai giudiziari per presunte ruberie a man salva? Chi l’ha deciso il doppio standard e che davanti ad esso ci si debba inchinare? La macchina del consenso, si dirà, della cultura universitaria e scolastica, dell’informazione schierata che possono farti fuori quando vogliono: sono tutte giustificazioni di comodo, che tengono fino a un certo punto, che riposano sulla rassegnazione dei più, sul bisogno di quieto vivere, di non cercarsi dei guai che è anche comprensibile, che è fisiologico ma oltre un certo limite diventa socialmente suicida.

Narrazione patetica

È la viltà collettiva che fa crescere certi schemi di pensiero, del tutto privi di pensiero. E la retorica dell’atleta nera che, uscita dal ghetto, resta con la mente al ghetto, figlia del ghetto, è molto romantica, molto retorica, la globalizzazione dei consumi e dei media la rende compatibile, funzionale per tutto, nella pallacanestro miliardaria degli Stati Uniti come nel Sanremo all’amatriciana delle Elodie e delle altre burinazze. Ma di concreto ha poco e niente, è narrazione patetica. Alle corte, c’è una cestista di colore che, davanti a milioni di sportivi, dice all’avversaria pallida: levati, sei niente, sei zero: come minimo è la dimostrazione di una parità acquisita anche nell’arroganza, nella scorrettezza. Basterebbe questo, senza andare a scomodare tanta sociologia del ghetto o presunte esigenze di riscatto; basterebbe, anche se suona risaputo, farsela la domanda: ma a ruoli invertiti, a parti invertite, che puttanaio sarebbe deflagrato?

Tutto il mondo è paese e la globalizzazione è anche sportiva, soprattutto sportiva: se la nostra Egonu di ritorno, che si ritiene una Madonna Infilzata dell’etnogender, viene mandata a quel paese da una collega aniemica, magari per aver sbagliato una schiacciata, partono le prefiche dell’antirà e antifà, si rotolano in terra, arrivano a passo di carica i garantisti dei miei coglioni; se è Paola la Lunga a sfanculare una compagna maldestra è il segno del riscatto, magari determinato dalla società razzista che l’ha fatta incazzare.

Parità a senso unico

Ecco, il livello è questo, è ancora questo. Questo sì che non passa, è incrostato nel perbenismo immoralista della parità da una sola parte. Poi si possono scrivere le cronache apparentemente anodine, buttarla sull’America divisa, ma la sostanza resta il doppio standard. E anche il trionfo del mercato: dopo essersi sfidate a vicenda, ostentando il disprezzo che non si riserva ai simili, le due hanno guadagnato insieme una barcata di soldi extra. Buon per loro, ma a questo punto tutte le belle teorie del BLM vanno a puttane e gli insulti, le provocazioni, la mistica del ghetto, bianco o nero che sia, assumono un penetrante profumo di business, il verde dei dollaroni che mette d’accordo tutti e al quale, in fondo, tutti puntano nella più fraterna solidarietà affarista.

Max Del Papa, 5 aprile 2023