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Berizzi tocca il fondo con gli insulti ai veronesi

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Se un cronista di Libero o della Verità di fronte a un cataclisma contro Bologna, Firenze, Modena, Reggio Emilia, insomma le classiche città comuniste, avesse scritto che se lo sono meritate, sarebbe scoppiato il finimondo e il giornalista sarebbe stato radiato dall’Ordine, non prima di essere stato crocifisso in sala mensa da Beppe Giulietti.

A Paolo Berizzi, che ha gioito del karma su Verona ferita per colpa dei “fascisti” che a suo dire la popolerebbero, nulla. Anzi, grandi consensi e pure qualche chiagne e fotti per gli insulti attiratisi, scambiati per aggressioni squadriste – speriamo che almeno non gli rafforzino la scorta, ché si sa che i cani da tastiera, di estrema sinistra ma anche di estrema destra, raramente mordono.

Il caso Berizzi rappresenta l’ennesimo esempio del grave declino intellettuale, etico, politico ma soprattutto giornalistico in cui è irrimediabilmente caduto il giornalismo italiano mainstream, destinato a una lenta morìa (e alla sparizione dalle edicole). Da cronista che in passato si era occupato di vari temi, anche con reportage interessanti, da quando ci sono Giorgia Meloni ma soprattuto Matteo Salvini,  si è trasformato nel più autorevole fascist bustier italiano, quello che dà la caccia ai fascisti: e pure ha creato una rubrica sul suo giornale La Repubblica, che ricorda un po’ quelle del quotidiano Lotta continua, senza per fortuna  gli indirizzi di casa dei “fascisti”, come invece nel giornale maestro fondato da Sofri.

Ora mentre i cacciatori di fantasmi possiedono una loro dignità e tradizione, e poi nulla ci assicura che gli spettri non siano tra noi, i cacciatori di fascisti come Berizzi sono destinati ad un più tristo e ripetitivo lavoro, soprattutto perché se i fantasmi forse non esistono, di certo i fascisti non più. Cosi il nostro povero cronista si deve costruire un proprio mondo immaginario in cui quattro lunatici, al limite tra il folclore e il nerdismo di provincia, sono sempre descritti come novelli Mussolini, Bottai, Balbo, e i loro ideologi meglio di un Gentile. Cosi il divertissement triste e sfigato di certa provincia italiana, anche con contorni inquietanti ma nulla di che, si trasforma nella prosa ansiogena del Berizzi in una specie di perenne assedio alla Costituzione, alla Repubblica e naturalmente al totem più alto, l’Antifascismo, che non si sa bene cosa sia. E che è tenuto in vita solo dal suo contrario, il Fascismo, cioè poche decine di sprovveduti che giocano nulla sapendo e nulla avendo letto.

Come nulla o poco sembra sapere il Berizzi. I suoi libri si presentano come inchiesta sull’estrema destra ma l’autore mostra di non aver letto quasi nulla dei classici della storiografia del fascismo ma anche della copiosa produzione scientifica sulla “destra radicale” contemporanea. Che il giornalista non debba leggere di storia e di scienze sociali ma solo descrivere in maniera impressionista, slegata tra loro, scenette della vita dissociata, lo si può tollerare solo in un giornalismo asfittico e provinciale: niente di questo finirebbe su Le Monde , sul Guardian, sul New York times e cito testate progressiste a giusto titolo.

Ovviamente tutto questo povero genere che nulla aggiunge alla conoscenza della Italia concreta, della sua storia e men che meno della sua attualità, non avrebbe avuto il ruolo abnorme che gli è stato affidato se il giornalismo italiano mainstream non si fosse trasformato in un’arma di pura e sola propaganda politica contro l’avversario. Salvini e Meloni, che sempre starebbero dietro a tutto, grandi vecchi loro malgrado che sono pure giovani. E qui le responsabilità non sono del Berizzi in sé ma di  chi gli ha concesso tanto spazio.

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