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Brexit, è la dura legge del Parlamento

Continuiamo con la speciale zuppa di Porro straniera. Grazie ad un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri.

Non tutti i commentatori del Financial Times ti illuminano con il loro pensiero come avviene con Wolfgang Münchau o in parte lo stesso Gideon Rachman e, soprattutto quando ancora non cedeva al suo propagandiamo multilateralista di oggi, Martin Wolf. Ce n’è più di uno che ama solo esercitarsi in un banale liberismo cosmpolitizzante, convinto di avere così in mano la soluzione di tutti i problemi della nostra epoca, rinunciando in tal modo a prodursi in analisi articolate della  realtà politica e sociale concreta. Di questo tipo, senza dubbio è Edward Luce, nei suoi articoli sugli Stati Uniti, e così appare Philip Stephens innanzi tutto in un commento del 14 marzo, quando compara la situazione della Gran Bretagna della Brexit a quella della Grecia.

Anzi Atene che avrebbe stabilizzato l’economia (perdendo solo il 30 % del proprio pil dal 2011) e recuperato un sistema politico funzionante oggi sarebbe molto meglio di una Londra che non sa più come riprendere il controllo dei propri destini nazionali. Molti degli argomenti di Stephens sono banalmente razionali, per esempio l’appello a forme di unità nazionale e non a curare prioritariamente gli interessi di partito così da aiutare la trattativa con i vari paesi leader dell’Unione europea che spesso, come nel caso di Emmanuel Macron e in generale come successe nella gestione della crisi greca, antepongono i propri interessi commercialmente nazionali a qualsiasi visione europeistica strategica.

In tante occasioni anche un mediocre buon senso è meglio di niente. Ma nelle situazioni tragiche, quando non si scontra il bene contro il male bensì differenti ragioni “forti” il banale buon senso diventa la via per finire direttamente all’inferno.

Quel che è in gioco in Gran Bretagna, oltre all’export con il resto dell’Europa, è la vita di un’istituzione come un parlamento che ha iniziato i suoi primi passi alla fine del Duecento. È la centralità del parlamento (con i suoi riflessi politico-economico-sociali) che è stata messa a dura prova da una burocrazia bruxellese che protegge sistematicamente il sovranismo dei carolingi (Francia e Germania) e tiene a lato i sistemi politici degli altri soci dell’Unione. La via scelta per proteggere questa “centralità” da parte di David Cameron, il referendum, è stata sciagurata ma è stata anche in parte inevitabile a causa dei sintomi di disgregazione incipienti della Gran Bretagna (dalla Scozia all’Ukip) largamente determinati dalle logiche bruxellesi.

Oggi sono tempi di grande propaganda: Matteo Salvini diventa Adolf Hitler, Viktor Orbàn  Miklos Horthy, conservatori, espressione innanzi tutto di ceti medi laboriosi più o meno (non di rado: meno) polticamente capaci, sono assimilati ai campesinos di Juan Domingo Peron. Il pur intelligente Alexis Tsipras viene fatto passare per una Margaret Thacher che ha “rilanciato” Atene. Ma le tragedie come quella rappresentata dal tentare di salvare la più perfetta democrazia parlamentare del mondo nel nuovo tempestoso contesto globale, se affrontate con la pura banale propaganda tendono, come già si scriveva, a produrre solo nuovo caos.

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