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Caro Porro, ci vietano il rischio di vivere

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“Dying is the day worth living for” ovvero, “Il giorno della morte è quello per cui vale la pena vivere”. Quando ho deciso di rubare questa frase epica al Capitan Hector Barbossa (Cit. Pirati dei Caraibi) e di tatuarmela sulla spalla destra, a Sidney nel 2013, forse l’ho fatto senza coglierne il pieno significato.

Avevo solo 26 anni, giravo il mondo lavorando sulle navi da crociera, e quella dichiarazione spavalda, a testa alta, di un vecchio pirata vissuto, sprezzante della morte, mi affascinava, tanto da farla diventare parte permanente del mio corpo con quella “moderna marchiatura a fuoco” che è il tatuaggio. Sono passati quasi 8 anni da quel giorno, il 2020 è agli sgoccioli, ed oggi quella frase, a causa di quello che stiamo vivendo dallo scorso marzo, assume un altro significato, o meglio, finalmente mi si presenta nella sua pienezza: ”Bisogna vivere al massimo la propria vita così da poter dire, nel giorno in cui arriverà inesorabile la morte, che ne è valsa la pena”.

E per capirlo mi serviva proprio la situazione attuale, in cui lo slogan ormai conclamato e imposto dal regime del virus è: “Rinunciate a vivere per evitare di morire”. Ma è davvero applicabile una filosofia del genere alle nostre vite? La possibilità remota di contrarre un virus letale in meno del 3% dei casi, giustifica l’imposizione di rinunciare alla propria vita? Giusto per rendere l’idea, sarebbe come imporre il divieto di fumare perché potrebbe causare il cancro, di mangiare cibi ricchi di grassi perché potrebbero causare l’infarto, di viaggiare in aereo perché potrebbe schiantarsi, di guidare la propria automobile per evitare possibili incidenti.

È banalmente palese che, vivendo, ci si assuma quotidianamente, chi più chi meno, dei rischi che hanno tra le possibili conseguenze, come estrema eventualità, anche la morte. Ma è altrettanto ovvio che non si possa preservare la vita unicamente vietandone il suo stesso naturale svolgimento. Da che mondo è mondo, infatti, ci hanno imposto o raccomandato un’infinità di precauzioni atte proprio a preservare la nostra salute, o per lo meno a ridurre il rischio di nuocere a noi stessi e agli altri, ma non, per l’appunto, il “divieto di vita”.

Giusto per fare qualche esempio, ci obbligano a mettere il casco in moto ma non di andarci in giro, di mettere la cintura in auto e rispettare il codice della strada ma non di guidarla, ci raccomandano di usare il preservativo ma non di evitare di fare l’amore, di bere alcolici responsabilmente ma non di essere astemi.

Insomma, per riportare il focus ai giorni nostri, il problema non sono le precauzioni, più che sacrosante, imposte o raccomandate ai fini di limitare il propagarsi della malattia. Ciò che trovo assolutamente aberrante è l’imposizione insindacabile di norme del tutto illogiche che, come unica finalità, abbiano l’abolizione o la forte limitazione della nostra libertà e di alcuni diritti fondamentali, per supplire alle evidenti lacune di una classe dirigente totalmente incapace di gestire un’emergenza sanitaria di questa portata. In parole povere il divieto di scegliere liberamente come “vivere” la propria vita.

E allora cosa significa “vivere”? Si limita al solo respirare e permettere al proprio cuore di battere? Chiudere gli occhi la notte sperando di riaprirli al mattino seguente? Sostentarsi per mantenere attive le proprie funzioni vitali? Onestamente credo che oltre a tutto questo ci sia di più…molto di più. Credo che vivere voglia dire, tra le altre cose, poter studiare gomito a gomito con chi condivide con noi questo periodo fondamentale della nostra vita e non davanti a un tablet; poter svolgere il nostro lavoro, qualunque esso sia, per poter far fronte alle nostre necessità e concederci quello che più ci gratifica; poter praticare lo sport che più ci piace se è quello che ci fa star bene e ci permette di sfogarci; poter girare liberamente, in lungo e in largo, questo nostro bellissimo paese, e il resto del mondo, ogni qualvolta ne abbiamo la possibilità se è ciò che ci appaga e ci rende felici.

Niente di tutto ciò dovrebbe mai essere in alcun modo vietato. Va benissimo regolamentarlo, limitarlo, porre delle condizioni, ma vietarlo vuol dire commettere un “parziale omicidio”.

Tra le varie motivazioni usate per giustificare questo palese abuso di potere, una delle più utilizzate è senz’altro quella di preservare la salute degli anziani e dei soggetti più deboli. Nulla da dire, ragione nobile ed assolutamente condivisa. Ma proviamo a metterci per un momento nei panni di un anziano che magari ha lavorato per tutta la sua vita e finalmente si sta godendo la tanto attesa e meritata pensione. È giusto che venga privato del diritto di potersi godere i figli e i nipotini, a Natale come ogni altro giorno? Di poter portare a cena o a ballare la moglie? Di poter giocare a bocce, a briscola o semplicemente discutere di calcio e politica con i suoi coetanei del circolo? Di spendere i suoi risparmi come meglio crede, magari girando il mondo su una nave da crociera godendosi il lusso e i servizi offerti? Può sentirsi libero di assumersi il “rischio di vivere” tanto quanto di scegliere di chiudersi in casa temendo per la propria incolumità?

Rimanendo sui soggetti “più deboli”, pensiamo per un attimo ad un malato terminale, a chi combatte per anni con un brutto male e sa che potrebbe non vivere ancora a lungo. Non ha forse il diritto di scegliere se vivere ogni giorno come se fosse il suo ultimo, tanto quanto di isolarsi dal resto del mondo e proteggere ogni goccia di vita che gli rimane come la cosa più preziosa che esista?

Per farla breve, a mio modestissimo parere, la tutela di questi soggetti non andrebbe usata in maniera così becera come pretesto per nascondere l’evidente incapacità gestionale governativa, ma andrebbero lasciati rispettosamente liberi di scegliere tra la “paura della morte” e “il rischio della vita” più di chi ogni altro.

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