Cultura, tv e spettacoli

C’è uno spettro che si aggira per l’Occidente

Anche Biancaneve woke ha fallito. Ma anni di politicamente corretto non scompaiono con un decreto di Trump

© rabbit75_ist, Juan Moyano e humblino tramite Canva.com

Il cosiddetto woke, epifenomeno di un Occidente a guida americana e culturalmente progressista, ha trasformato una puntuta critica al potere in uno strumento di autotortura. E, come la Torre di Babele di Bruegel il Vecchio, il suo edificio pare essersi sgretolato subito prima di veder compiuta la sua definitiva ascesa al cielo. La notizia positiva è che, al momento del suo collasso, potrebbe trascinarsi dietro altre forme di malcostume moralistico e impostura intellettuale: dal politicamente corretto al revisionismo à la page della cancel culture, che ne sono comunque presupposti e parte integrante. Alcuni avvenimenti recenti suggeriscono che effettivamente si possa presto tornare ai fasti del glorioso cinema di John Landis, a relazioni sociali non regolate dallo spirito di vendetta, a dibattiti politici fondati sul principio di realtà e a un rapporto col linguaggio meno visceralmente bellicistico. Eppure, al di là di qualche segnale incoraggiante, la cattiva notizia è che potrebbe non essere così semplice.

I numeri di Biancaneve al botteghino, cronologicamente successivi all’ordine esecutivo del 20 gennaio 2025 di Trump a oggetto lo smantellamento dei programmi federali di Diversity, Equity, and Inclusion, possono dare l’impressione che il tracollo del metodo woke sia ormai compiuto. Il remake Disney, costato circa 250 milioni di dollari, ha incassato 43 milioni negli Stati Uniti – e 87 milioni globali fino al 26 marzo 2025 –, sotto le attese, già al ribasso, di 50 milioni per il weekend d’apertura negli Usa, con feedback impietosi da parte della critica: il Guardian, tra gli altri, in una recensione non proprio tenera a firma di Peter Bradshaw, lo ha definito “da mani nei capelli“. Ciò nonostante, una maggiore prudenza è opportuna. I fallimenti commerciali woke non sono una novità assoluta – già nel 2023 la pubblicità di Bud Light con l’influencer transgender Dylan Mulvaney aveva fatto perdere 27 miliardi di dollari di market cap – e il metodo ha continuato a perpetuarsi nonostante un diffuso insuccesso commerciale. Inoltre, come non è mai stata credibile l’imposizione della schwa a colpi di decretazione, poiché il linguaggio è un attore del processo evolutivo e ha natura spontaneamente liquida e adattiva, così possiamo pensare che il lavoro di disseminazione di questi anni difficilmente svanirà nel nulla a seguito di un ordine esecutivo di segno opposto.

Nato negli atenei americani, il metodo woke ha costruito le proprie fortune sulla base dell’accanimento di un piccolo gruppo di persone molto agguerrite che, mediante operazioni lobbistiche, ha saputo ancorarlo alla politica e, soprattutto, al sistema dello spettacolo. Ed è nello spettacolo che questa minoranza, votata al moralismo (e al narcisismo elitista, direbbe Cristopher Lasch), ha particolarmente trovato il terreno adatto alla sua partenogenesi, laddove, poco amato dal pubblico, finiva misteriosamente col diffondersi ovunque. Naturalmente non è certo un segreto la crisi di creatività dell’industria dell’intrattenimento, se negli ultimi anni si è specializzata in remake, reboot, operazioni retromaniacali in chiave nostalgica e rilancio di franchise dormienti (Marvel, Transformers, Star Wars ecc.). Sotto questo aspetto il woke ha regalato un’imperdibile opportunità ad autori in cerca di idee, poco ispirati e indifferenti al conformismo. Come era prevedibile, poi, una linea programmatica piena di opacità non ha fatto altro che acuire la crisi, consegnando le grandi compagnie di produzione a fare i conti con la propria resilienza economica – ma per quanto ancora?

Senza dubbio la ragione dello scarso affiatamento del pubblico sta nella petulanza dei toni, aggressivi e ipocriti, come condivisi dall’ala più rivendicativa del progressismo e crudamente descritti nell’affilato Religione Antifascista di Roberto Lobosco (Idrovolante Edizioni). Raramente qualcuno è lieto di sentirsi dire di essere una schifezza ambulante, oltreché responsabile delle peggiori iniquità mai apparse sulla terra. Ciò vale soprattutto per il cittadino comune, il consumatore ordinario, il lavoratore, che dopo una giornata di fatiche cerca un’innocente soddisfazione serale e invece si trova schiacciato da una visione estranea che lo colpevolizza per principio. Questa cultura, del resto, attecchisce giocando sull’indignazione, un basso istinto umano, e fa leva su precisi meccanismi di colpevolizzazione e risarcimento ridistributivo: il mondo non sarà mai un paradiso, e allora via con la denuncia stridente, via con l’individuazione di un capro espiatorio (la stessa rivoluzione green funziona così), via con la supercazzola alchemica del linguaggio, per cui le parole sono oggetti plasmabili ed entità moralmente responsabili, travisando Foucault che, da nume tutelare, si trasforma in figurina da collezione. Come una balzana stregoneria, il modus operandi woke sfugge alla disciplina del suo stesso fautore fino a scatenare conseguenze incontrollabili e lesive per quell’industria che ne è diventata alfiere. Basti pensare a come, senza agenda, molti abbiano amato l’autenticità dei capolavori cinematografici di Almodóvar e Fassbinder, mentre il grigiore impiegatizio di una forzatura antinarrativa ha fatto scadere fatalmente i feedback per Lightyear (Disney Pixar, 2022), noto per un controverso e gratuito bacio gay e anch’esso deludente al botteghino.

Una fredda e impietosa analisi, tuttavia, ci suggerisce che, se verosimilmente il flop commerciale non sarà assorbibile per sempre, ormai questi pugnaci circoli hanno trasformato il terreno politico e culturale in un campo minato. Sono passati molti anni e, se Fassbinder è morto, Almodóvar si è dovuto adattare alle nuove logiche; almeno due o tre generazioni di nuovi consumatori hanno delegato la loro educazione sentimentale a Netflix e anche i movimenti anti-woke hanno finito con l’incorporare alcuni dei suoi criteri più controversi, producendone una mutazione reazionaria (in America si parla direttamente di woke-right: vittimismo, piagnisteo e permalosità diventano terreno di rivendicazione anche per i conservatori). Ammesso allora che il woke sia veramente morto, ora c’è da guardarsi bene dalla sua forma più subdola, dallo spettro che si aggira per l’Occidente. Come un Predator o un Sansone postmoderno, ha in sé il germe della distruzione e, non potendo accettare di andare a fondo da solo, rischia di trascinarci tutti, tristemente, assieme a lui.

Michele Ferretti, 31 marzo 2025

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