Chiese attaccate, minacce e bombe molotov. La furia dei pro aborto in Usa

Proteste dei liberal americani contro la Corte Suprema che ha rovesciato i precedenti giurisprudenziali che riconoscono il diritto all’aborto

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Quando postai qui il mio articolo sulla «manina» che aveva trafugato il progetto dell’Alta Corte americana sull’aborto, insinuai che si trattasse di una mossa dei dem per non tracollare nelle elezioni MidTerm. E aggiunsi che i giudici costituzionali, grazie a ciò, non avrebbero più potuto mettere il naso fuori casa. Qualche lettore commentò che esageravo. In effetti, sono stato anche troppo ottimista: il giudice Alito, firmatario del report dello scandalo, è stato trasferito con la famiglia in località segreta dalla polizia. Gli altri membri della Suprema si sono visti tirare bombe molotov sull’uscio perché qualche liberal si era premurato di mettere su internet gli indirizzi domiciliari dei supremi magistrati, indirizzi adesso presidiati dalle forze dell’ordine.

Breve nota per i giovani: i liberal americani non sono «liberali», bensì marxisti. Infatti, come ben sanno gli italiani, la sinistra quando si sente minacciata ricorre alla piazza. E così fa quella Usa, con in più un presidente che soffia sul fuoco per un pugno di voti. Chiese attaccate, cattedrali difese da cordoni di fedeli, minacce fisiche con tanto di nomi e cognomi, cartelli blasfemi e vie di fatto a cui da un paio d’anni le città americane sono abituate. Le vite dei neri contano! Black lives matter, in inglese. Infatti, sono i neri quelli che, in percentuale, ricorrono di più alle multinazionali dell’aborto che, per par condicio e par interest, finanziano entrambi i partiti americani. Ma sulla stampa italiana avete sentito o visto niente sull’argomento? No? Per forza. Per par condicio, neanche i media americani si sono filati la visita di Draghi, dai nostri media salutata e acclamata manco fosse stata la partenza da Palos di Cristoforo Colombo.

Per sapere fino a che livello di grottesco siano giunti oltreatlantico devo chiedere alla Settimana Enigmistica. È qui, infatti, che ho letto quanto segue: il 15 aprile lo sport nazionale Usa festeggia il Jackie Robinson Day, nel quale tutti i giocatori di baseball, gli allenatori e perfino gli arbitri indossano una maglia col numero 42. Questo era infatti il numero di Jackie Robinson, giocatore che nel 1947 aprì la Major Ligue ai “negri” (allora si chiamavano ancora così), evento celebrato, naturalmente, in un film. Com’è noto, Netflix è sull’orlo della bancarotta a furia di serie ambientate alla corte britannica settecentesca e interpretate da neri. Kenneth Branagh ha dovuto far fare a un nero la parte del dio vichingo Heimdall nel primo film su Thor. Qualche giorno fa, il violinista n. 1 al mondo si è esibito nella metro di New York per un’ora. Nessuno se lo è filato e ha rimediato solo qualche spiccio di elemosina. Ovviamente, ci fosse stata Lady Gaga avrebbero bloccato la circolazione. American way of life. Che è ormai anche la nostra.

Guardate l’Eurofestival e vedete com’è ridotta la famosa «canzone italiana». Ha stupito tutti la concorrente lituana: si è presentata con un semplice abito da sera, mentre il resto era puro circo equestre. Già: in Lituania l’american way è arrivata in ritardo. Mettiamocelo in testa, il sogno americano è un’oligarchia di pochi straricchi, tali da superare ogni immaginazione e ogni altro Creso della storia. Tutti gli altri, prolet. La disoccupazione? No problem. Nell’esercito c’è posto per tutti. Il patriottismo è richiesto solo ai prolet, gli oligarchi, come il denaro, non hanno patria. Per ora sono occupati a lavorarsi ai fianchi la Russia, così che non sia d’intralcio quando si dovranno regolare i conti con la Cina. Eggià: un sistema totalitario al quale non fa alcun effetto perdere qualche milione di vite umane, mentre per ogni americano che torna avvolto nella bandiera devono fare salti mortali perché la cosa passi defilata sui media.

Cioè, quella televisione davanti alla quale l’americano medio passa l’esistenza con una birra in mano. Esagero? Secondo le ultime statistiche i bambini Usa stano davanti allo schermo dalle quattro alle otto ore giornaliere. Anche se è quello dello smartphone. Strana la vita: ho passato l’esistenza a contrastare i russi quand’erano comunisti, e ora che non lo sono più devo guardarmi dagli ex amici…

Rino Cammilleri, 13 maggio 2022

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