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“Coronation”: un viaggio clandestino all’inferno nella Cina dei due morbi

Una sola parola: inferno. È proprio lì che sembra di essere catapultati nel guardare “Coronation”, il docu-film “clandestino” di Ai Weiwei, artista cinese da anni impegnato nella lotta per difendere i diritti umani e coraggioso oppositore del regime comunista della Repubblica popolare. Non che non me lo aspettassi, il film è stato realizzato montando immagini che gli stessi protagonisti, spesso amici del regista, gli hanno inviato aggirando la censura del regime nel tentativo di documentare la vita di Wuhan al momento dello scoppio della pandemia Covid (gennaio 2020). Dunque sapevo bene a cosa sarei andato incontro. Eppure, per quanto l’inferno si possa immaginare, viverlo anche se solo attraverso uno schermo, è tutta un’altra faccenda.

Non sono un esperto di cinema, quindi non mi esprimo sul valore artistico della pellicola né voglio qui entrare nella polemica sulle motivazioni che hanno portato le maggiori piattaforme di streaming e festival internazionali ad escludere il prodotto di Weiwei. Dico solo che se lo scopo del regista era quello di portarci all’inferno, be’ ci è riuscito perfettamente. Sì, perché quello che mi ha impressionato maggiormente non è stato tanto il virus, gli ospedali, i malati (per quanto crude e tragiche le immagini) ma l’altro morbo, quello della dittatura comunista cinese che, al contrario del Covid, non uccide solo il corpo ma anche la mente, il cuore e l’anima di tutti i suoi sudditi. I due mali, combinati insieme, non lasciano scampo: è l’annichilimento totale dell’essere umano, la fine di ogni speranza, il trionfo della disperazione e l’unica via d’uscita sembra essere la morte fisica, di certo il minore dei mali. Sì, guardi Coronation e comprendi ancora meglio quello che già in molti sapevamo. La salute non è tutto. In assenza di libertà, la morte è di gran lunga preferibile.

 

 

Nelle immagini di Weiwei, condite da musiche ansiogene e inquietanti, da interminabili silenzi e da azioni che sembrano non arrivare mai a compimento, tanto è il controllo ossessivo e la burocrazia a cui tutti devono sottostare, sembra proprio che anche Dio abbia abbandonato Wuhan. Il sole non esiste, solo neve, gelo e tempesta. Il cielo è impenetrabile e irraggiungibile. Nemmeno la grazia dell’Altissimo sembra riuscire a squarciare le tenebre. L’angoscia, il senso di solitudine e il dolore dei protagonisti fuoriescono dallo schermo e ti ci trascinano dentro. Ed eccoti all’inferno insieme a loro a trascinare pietre su per la collina ancora e ancora, per l’eternità.

Gli inferi non risparmiano nemmeno i bambini e i malati. I più piccoli, in fila e col pugno chiuso alzato giurano fedeltà al comunismo ripetendo frasi di rito che vengono suggerite loro da una tongzhi girata di spalle che guarda fiera il suo vessillo rosso fuoco. I malati, senza la vicinanza e l’affetto dei propri cari, non possono nemmeno sperare in un prete, in una preghiera, in un crocifisso. Lì Dio non esiste, e come potrebbe. Appese alle pareti dei corridoi e delle stanze solo bandiere rosse con falci e martelli.

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