Coronavirus, chi fallisce così si dimette

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Alla fine i nodi arrivano al pettine, perfino in un paese senza pettine, come ammoniva e temeva Leonardo Sciascia. L’emergenza Coronavirus ha trovato l’Italia vulnerabile, impreparata, scoperta. E in Europa è esplosa – non a caso – qui: non in Francia, non in Germania, non nel Regno Unito.

La conferenza dell’altra notte di Giuseppe Conte e del suo governo, che doveva “rassicurare”, ha più che altro alimentato paura. Motivata dal fatto che l’opinione pubblica si è razionalmente fatta l’idea di un governo in confusione, mentre i buoi (o molti buoi) sono scappati dalle stalle.

Inutile girarci intorno: il periodo più delicato erano i 30-35 giorni alle nostre spalle. E lì occorreva fare qualcosa: invece, le autorità nazionali e di governo hanno pervicacemente detto no a meccanismi di isolamento precauzionale generalizzato di chiunque, per ragioni di lavoro o di vacanza, fosse di rientro da un soggiorno in Cina.

Le stesse autorità nazionali e di governo che hanno detto no alla proposta dei governatori leghisti, il 3 febbraio scorso, di disporre un periodo di quarantena obbligatoria rispetto al rientro a scuola per i bimbi e i ragazzi – ovviamente di qualunque nazionalità – di ritorno da un viaggio in Cina.

Le stesse che non hanno alzato un sopracciglio mentre un governatore regionale, il toscano Enrico Rossi, siglava un discusso protocollo con le autorità cinesi per disporre il rientro – da quanto si capisce – senza quarantena, di 2500 cittadini cinesi, provvedendo anche a insultare come “fascioleghiste” le richieste di più forti misure precauzionali.

Tutto questo, mentre responsabili politici usavano meccanicamente le parole “sciacalli” e “sciacallaggio” per definire chiunque osasse fare obiezioni, sollecitare prudenza, spingere per misure precauzionali.

Mentre autoproclamati “competenti” non esitavano a criminalizzare un loro antico eroe, il professor Roberto Burioni, colpevole stavolta di essersi disallineato e di aver suggerito rimedi prudenziali più severi.

Mentre, per settimane intere, un mondo intellettuale prigioniero delle sue ossessioni e dei suoi schemini ideologici, impostava tutto il dibattito in termini di amicizia tra i popoli e di no al razzismo, quando invece l’asse su cui la discussione andava collocata era puramente e semplicemente di sicurezza sanitaria, cercando naturalmente di non reprimere le libertà personali e di non deprimere l’economia, su cui già si attendono purtroppo riflessi pesantissimi.

Ora, dopo quella conferenza stampa, viene fuori l’isolamento di alcune province. Misura forse inevitabile, adesso: ma solo perché prima si sono lasciati scappare dalla stalla i buoi. E “chiudere” per un tempo da definire importanti distretti produttivi produrrà effetti facili da immaginare sul Pil.

Chi paga il conto? Il conto del tempo perso, dei rischi assunti senza ragione, delle parole sprecate per inventare primati inesistenti nell’isolamento del virus (le nostre ricercatrici “precarie”, “donne” e “meridionali”, si aggiungeva con involontario e tragicomico mix di sessismo e razzismo), delle offese scagliate senza motivo?

In un paese minimamente abituato a rispondere di ciò che si fa (i più cool parlerebbero di accountability), sarebbero già scattate dimissioni a raffica. Qui ci si prepara alla prossima intervista, al prossimo tweet, alla prossima campagnetta ideologica, alla prossima conferenza stampa.

Daniele Capezzone, 24 febbraio 2020

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