Rassegna Stampa del Cameo

Cosa c’entra Donnarumma con la schiavitù

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I lettori sanno che, da un quindicennio, studio un modello economico, politico, culturale, nato dopo la caduta del Muro, che ho chiamato Ceo capitalism. Con Giovanni Maddalena, professore di filosofia della comunicazione, abbiamo scritto, a quattro mani, il libro Uomini o Consumatori? Digitate Zafferano.news e non perdetevelo.

Lo schema del modello è quello consueto, basato sulla triade: “padrone”, “fattore”, “lavoratore”. La sua caratterizzazione non è tanto nel “padrone”, che padrone è sempre stato e sempre sarà, né nel “fattore”, nel frattempo diventato un maggiordomo raffinato, capace di mascherare le proprie ignobili azioni, con altrettanto raffinati pensieri e parole, ma il “lavoratore”. Ricordate quelli del movimento #Occupy 99% versus 1%, giovani muscadins, rivoluzionari da Ztl? Non avevano capito come il 99% oggi non è né “padrone” né “fattore”, ma neppure più “lavoratore”. Ormai è composto da “consumatori”, schiavi volontari che o evolvono verso l’essere “prodotti”, o destinati al divano di cittadinanza.

Ho provato quindi a sfidare Google, digitando “Gigi Donnarumma, Mino Raiola, schiavo? prodotto?” Dalle profondità del web è emerso, come d’incanto, un articolo di Xavier Jacobelli del 1 giugno 2017, sintesi di un’intervista fatta nella casa di Mino Raiola a Montecarlo, pubblicato dal Corriere dello Sport, con una nota in calce di Google “Mancante prodotto”. Il titolo del pezzo era mitico: “Calciomercato Milan, Raiola: Donnarumma non è uno schiavo”.

Partiamo da lì. Sono d’accordo. Donnarumma non è uno schiavo, così come Raiola non è un mercante di schiavi, così come Nasser Al-Khelaïfi non è un aristocratico ottocentesco della Virginia che pratica lo schiavismo. Nella variante “delta” del Ceo capitalism, Donnarumma è un “prodotto”, Raiola è un “dealer”, Nasser è un “Ceo”: le tre figure chiave del modello dominante di oggi. L’operazione Donnarumma-Psg è emblematica. Il Psg non aveva bisogno di un portiere, ne aveva uno eccellente, amato dai tifosi, al quale aveva appena rinnovato un contratto principesco. Ma il Ceo capitalism è altro, deve produrre finanza, parare i tiri degli avversari è secondario.

Ed ecco allora l’affare del secolo, tutto costruito a tavolino. Il “dealer” avrà spiegato al Ceo: “Tu comportati da gioielliere. Hai l’occasione della vita, paghi solo un “affitto” annuo di 10 milioni e sei proprietario di un gioiello unico, che per i prossimi 15 anni ha mercato. Oggi non ti serve? Che importa, al limite lo alterni in panchina, lo dai in prestito, vedi tu. Se ti stufi, vendilo, l’hai pagato zero, lui non può reagire, perché non è più un uomo ma un prodotto, che si è liberamente affittato a te, ad un canone non equo. I politici, gli intellò, gli imprenditori, i magistrati, gli influencer lo fanno da anni, sono a tuo libro paga come fattori. Perché non dovrebbero farlo i calciatori? Dov’è il problema?”

Ovvio che da questo schema, una volta entrati non si esca, ci mancherebbe. Il Ceo capitalism è rigoroso nella comunicazione: assegna alle parole significati sempre nuovi, apparentemente slegati dalla realtà dei fatti, sempre politicamente corrette, ma con un obiettivo alto, seppur ben nascosto. Mai nessuno avrebbe pensato a fare del “consumatore” un’entità morale e giuridica, ovvero permettere all’uomo di diventare un “prodotto”, oppure più banalmente chiamare commissione una tangente, o peggio, fare di un leader un bandito ma continuare a incensarlo come un leader integerrimo.

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