Cosa è (davvero) il “nazionalismo”

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Il nazionalismo è problema storico di straordinaria complessità, ha dato forma spesso in modo tragico alla storia del mondo ma viene di frequente trattato con eccessiva approssimazione, strumentalizzato senza comprenderne le reali radici. Nazionalismo (Liberilibri), un classico della filosofia politica scritto da Elie Kedourie e appena tradotto per la prima volta in italiano da Alberto Mingardi, getta una luce chiarificatrice sull’intero fenomeno.

Kedourie sostiene che il nazionalismo è una dottrina inventata all’inizio del Diciannovesimo secolo. Pone la sua origine storica in quel passaggio dall’Illuminismo al Romanticismo segnato dalla Rivoluzione francese, quando, esautorato un assolutismo già indebolito, alla nazione viene conferita la sovranità; il suo presupposto filosofico, invece, lo pone nella romanticizzazione della politica ad opera dell’idealismo tedesco. In questa prospettiva le nazioni vengono viste come insiemi di individui accomunati da cultura, religione e linguaggio, per cui è giusto che ad ogni nazione corrisponda uno Stato. La conformazione del popolo diviene il solo criterio per la definizione della giusta forma di governo, dell’identità del sovrano legittimo e dei giusti confini territoriali; la buona politica è solo quella che s’incarica della missione di scolpire la realtà secondo quanto dettato dalla natura; qualsiasi rappresaglia, lotta, rivoluzione o persino guerra che contrasti chi o ciò che ostacola la realizzazione di un tale assetto, che coincide con la libertà dei popoli, è considerata giusta, legittima, financo sacra.

Kedourie ha un’altra idea della questione, a partire dal fatto che le frontiere sono semplicemente linee stabilite dal potere e che “possono essere mantenute soltanto da una disponibilità a difenderle con le armi”. Kedourie considera quindi il nazionalismo una dottrina eversiva e mortifera, destinata a creare esclusivamente dei cruenti disordini, e niente affatto un sentimento o fenomeno universale, quale si annuncia, che è auspicabile orienti la politica in vista della sua promessa di liberazione. Lo considera un “veleno intellettuale”, un’“ossessione metafisica”: nient’altro che una commistione di speculazioni accademiche e letterarie e di una politica che non si vuole più garante della pacifica conservazione dei rapporti di potere, ma diventa missione palingenetica senza riguardi per la violenza. Il Novecento sarà tragico testimone di questa verità teorica, ma poi, anche come conseguenza di quei fatti, segnerà anche un superamento del nazionalismo (almeno in buona parte dell’Occidente) attraverso i successi della globalizzazione. Ma la storia, si sa, non finisce.

Scrive Mingardi nella sua introduzione: “Nell’ultimo lustro, abbiamo assistito a un autentico revival nazionalista e, con varie sfumature, la contrapposizione fra nazionalisti e cosmopoliti ha acquistato ovunque centralità, a spese di altri cleavages politici. Ciò è vero anche dove, come in Italia, anziché “nazionalisti” si preferisce dire “sovranisti”.

Al di là della scelta delle parole, è indubbio che la questione “identitaria” si è ripresa il centro della scena politica. Nel dibattito, l’identità tende a dirsi al singolare, contrapponendo schematicamente l’appartenenza, il radicamento in una certa comunità, in un dato territorio, alla sua assenza, allo sfilacciarsi dei legami, allo sradicamento. Le radici in questione vengono fatte coincidere con la dimensione nazionale, per certi versi sopravvalutandone il peso nella vita quotidiana delle persone, per altri dimenticando la complessità e il rilievo dei legami che ciascuno di noi intrattiene nel suo vissuto con persone, famiglie, istituzioni. Oggi prevale una caricatura dell’identità, che sembra volerne valorizzare sempre una dimensione annullando tutte le altre. Fra le tante riflessioni che suscita, forse il libro di Kedourie può condurci a un approccio più adulto e critico.”

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