Rassegna Stampa del Cameo

Dazi e mercato auto, comanda Trump

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L’auto si è ripresa il centro della scena mondiale, anzi, in Francia il “diesel” guida la rivolta. In Italia, neo governanti digiuni di politica vorrebbero dare incentivi alla Tesla e penalizzare la Panda (e non abitano neppure in ZTL).

Il recente abbandono, da parte delle Big Pharma, delle ricerche sulla cura dell’Alzheimer, con la conclusione “basta buttare quattrini”, è la dimostrazione che i verbi “cercare” e “trovare” nella vita non sempre sono conseguenziali. Lo stesso vale per il sogno di elettrificare il mondo, quindi anche l’auto. Il paradigma di Francesco Gattei è tuttora valido: “Duemila anni per comprenderla, duecento anni per utilizzarla, serviranno ancora molti decenni per stoccarla con efficienza”.

Torniamo alla dura realtà. L’arrivo sulla scena mondiale di Donald Trump ha scompaginato il tavolo dell’industria dell’auto, facendo di lui il nuovo Zar, perché è lui che ora detta le regole. Nella lotta sotterranea fra Silicon Valley (e le sue fantozziane disponibilità finanziarie) e i Big dell’auto mondiale, ove la prima vorrebbe ridurre i secondi al rango di banali carrozzieri e l’auto a una piattaforma digitale con quattro ruote, si è inserita la Cina. Questa da una certa data imporrà l’importazione di solo auto elettriche, chiaro atto di politica industriale imperiale, imponendo ai concorrenti di investire su una scommessa, pur sapendo che, allo stato, quando si infila la spina per la ricarica della batteria dall’altra parte ci sono solo osceni idrocarburi e chissà quando (2100?) troveremo i mitici “sole e vento”.

The Donald con la minaccia dei dazi sta riportando sulla terra l’arroganza cosmica di tutti gli attori, specie della Germania. Chi avrebbe mai potuto immaginare che la Volkswagen-Audi facesse un accordo con Ford tutto sbilanciato a favore degli americani? E che dire della convocazione alla Casa Bianca dei Ceo delle tre grandi case automobilistiche tedesche? Non sapremo mai se l’esclusione dal tavolo dell’Ambasciatore tedesco a Washington sia stata la decisione di una disperata Angela Merkel o di The Donald. Di certo siamo in presenza di una strategia di politica industriale di un paese, riconfigurata in termini globali, con un ridimensionamento di ruoli e di responsabilità di tutti gli altri. Ormai è chiaro: occorre adeguarsi alla politica industriale americana. Questo, ripeto, fa di Donald Trump il nuovo Zar dell’auto mondiale, come lo fu per parte del Novecento Henry Ford I.

Nella stessa logica è da leggere l’arresto, per un problema di tasse (sic!), del Ceo di Renault-Nissan-Mitsubishi (primo gruppo al mondo come volumi), Carlos Ghosn da parte del governo giapponese. E poi la sua detenzione, tuttora in atto, secondo un protocollo equivalente al nostro 41 bis, da noi limitato ai soli mafiosi di rango. Lo stesso protocollo che a New York usano per El Chapo, fornitore storico di coca alle élite della Grande Mela. Volendo ribaltare l’accordo Renault-Nissan a proprio favore i giapponesi mandano il messaggio al mercato che nei business strategici vale tutto, anche l’uso spregiudicato delle manette (altro che il semplice tintinnio di Mani Pulite). Infatti, Trump si è subito allineato, facendo arrestare la figlia del padrone di Huawei.

Pensiamo solo allo scontro in Francia, che potrebbe far saltare Emmanuel Macron, per una carbon tax di 6,5 centesimi sui diesel (unico mezzo di trasporto per i lavoratori più umili) vissuta come un modo per far pagare ai poveracci l’elettrificazione delle auto del futuro che, stante il livello dei prezzi, si potranno permettere solo quelli della gauche kérosène (copyright del filosofo Jean-Claude Michéa).

E Fca come si inserisce in questo puzzle strategico? Per ora sulla “giostra” delle alleanze-cessioni-acquisizioni non è ancora salita. La dimensione strategica standard ormai è di oltre 10 milioni di pezzi/anno e l’hanno solo 4 grandi gruppi euro-nippo-americani (cinesi e coreani esclusi). Fca era ed è un follower (nato dalla fusione di due follower tecnicamente falliti, Chrysler e Fiat), ha una stazza fuori norma, appena 4,7 milioni/anno, quindi sulla “giostra” dei leader potrà salirci solo se qualcuno di loro l’assorbe.

Per ora, grazie a Sergio Marchionne, Fca ha azzerato i debiti, condizione base per una cessione (con elegante pudore lo si chiamerà “consolidamento”). Mentre Marchionne seguiva la strategia dello “spezzatino” però con quotazione in borsa, il nuovo Ceo Michael Marley ha venduto per cash Magneti Marelli, e gli azionisti si sono presi, come dividendi straordinari, 2 miliardi. In termini strategici, non certo un bel segnale. Che tutti i nodi strategici irrisolti di Fca, che la perseguitano fin dalla nascita, stiano arrivando al pettine? Vedremo.

Riccardo Ruggeri, 7 dicembre 2018

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