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Difesa liberale della raccomandazione

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In un’accezione forte, stando al Vocabolario Treccani, per «raccomandazione» deve intendersi una «intercessione in favore di una persona, soprattutto al fine di ottenere ciò che le sarebbe difficile conseguire con i mezzi e i meriti propri o per le vie ordinarie». Si tratta di un (mal)costume che da sempre viene considerato una delle cause della nostra arretratezza civile e morale. Si ricorre al mafioso, al prete, al massone, al conte zio per sottrarsi alla legge, per sbarazzarsi della concorrenza, per conquistarsi un posto al sole. Nella raccomandazione celebra i suoi trionfi il familismo amorale di quella piccola borghesia italica che, per i custodi intransigenti dell’etica repubblicana, ha alimentato i peggiori istinti politici del paese sui quali hanno fatto leva movimenti —dal fascismo all’odierno populismo, passando per il qualunquismo—esiziali per le nostre libertà e/o per il nostro senso civico.

Nel bellissimo film di Mario Monicelli, Un borghese piccolo piccolo (1977) tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, il protagonista Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi) dice al figlio: «Pensa a te, Mario, pensa solo a te! Ricordati che in questo mondo basta fare sì con gli occhi e no con la testa, che c’è sempre uno pronto che ti pugnala nella schiena. D’altronde io e tua madre siamo soddisfatti: abbiamo un figlio ragioniere, che vogliamo di più? Per noi gli altri non esistono. Tu ormai sei sistemato, noi siamo vecchi: non c’abbiamo altre ambizioni. Tutto quello che vogliamo è morire in pace, con la coscienza a posto». Nel racconto fu un massone a ‘trovare il posto’ — da noi il lavoro, appunto, è un ‘posto’, una sistemazione definitiva, come spiega il senatore Nicola Binetto (Lino Banfi) al giovane Checco Zalone nel film del 2016 Quo vado? — al giovane Mario Cerami, ucciso poi casualmente da un brigatista. In un altro indimenticabile film Il mafioso (1962) di Alberto Lattuada fu, invece, un mammasantissima, don Vincenzo (Ugo Attanasio) a trovare un eccellente impiego in un’industria metalmeccanica lombarda ad Antonio Badalamenti (Alberto Sordi). Il ‘raccomandato’ viene costretto a pagare il favore con un’esecuzione mafiosa a New York ma, stando al film, risulta tutt’altro che indegno del ruolo affidatogli nella fabbrica ed è molto stimato dai colleghi (ignari della sua affiliazione a Cosa nostra).

La brutta nomea che pesa sulla ‘raccomandazione’ nell’immaginario collettivo sembra essere pienamente giustificata ma… Ma il problema è che tutti i costumi riprovevoli vanno forse contestualizzati e allora anche quello in esame vanno concesse le attenuanti generiche. Almeno per due buone ragioni. La prima è che in una società in cui tutti raccomandano tutti, la raccomandazione può avere una funzione di neutralizzazione e quindi riportare a criteri universalistici di giudizio. «Tra i nostri candidati – disse il Presidente di una commissione concorsuale ai suoi colleghi – uno solo non era raccomandato. Mi è giunta la lettera dell’Onorevole ** e l’anomalia è sanata. Ora stanno tutti sullo stesso piano».

Ci sono casi, sempre più frequenti, in cui enti e associazioni di grande prestigio e benemeriti per il lavoro svolto, non rientrando tra quelli fortemente sostenuti da partiti e da fondazioni legate ai partiti, vengono penalizzati, in base ai parametri di assegnazione dei contributi, senza contravvenire alle leggi certamente ma, guardando alla morale e all’equità sostanziale, in modo vergognoso. In questo caso, la richiesta rivolta a un alto funzionario di tutelare i legittimi interessi di un’associazione, invitando a vagliare bene i suoi titoli, formalmente è una raccomandazione, sostanzialmente una preghiera di tutela.

Ma c’è un’altra ragione che fa riflettere sulla possibile positività della raccomandazione. Ed è una ragione che fa riferimento all’essenza stessa della civiltà liberale.

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