La guerra commerciale avviata da Donald Trump, non appena si è insediato alla Casa Bianca, promette di cambiare gli equilibri dell’economia mondiale. La strategia dei nervi scelta da Washington ha già colpito Canada, Messico e Cina ma a breve sarà il turno dell’Unione Europea.
Vale allora la pena chiedersi quale sarà l’impatto del neo protezionismo americano sul già debole prodotto interno lordo del Vecchio continente e quali saranno i Paesi esportatori a pagare il prezzo più alto alla filosofia “America Great Again” rispolverata da The Donald.
A differenza di quanto era accaduto durante il suo primo mandato, adesso Trump considera una priorità politica ricorrere all’arma dei dazi per riequilibrare il commercio mondiale a favore degli Stati Uniti. I suoi toni del presidente americano sono stati inequivocabili, e dallo Studio ovale ha martellato ripetutamente quello che considera l’inaccettabile deficit commerciale degli Stati Uniti con i paesi partner.
Proprio l’ampiezza della differenza tra valore delle importazione e delle esportazioni è un buon termometro per intravedere dove andrà colpire Trump nelle prossime settimane e come, cioè quali settori o prodotti saranno presi di mira.

Proviamo allora a individuare sull’Atlante i Paesi che rischiano di essere maggiormente penalizzati dalle mosse statunitense. Ci aiuta nella disamina un recente studio diffuso da Schroders. Il big del risparmio gestito britannico ricorda come altrettanto importanti per la decisione finale saranno, oltre al deficit commerciale, anche altri fattori quali il mercato dei cambi, in particolare per quanto concerne la moneta cinese, eventuali sussidi nazionali (come fa il Dragone con le sue auto elettriche) o violazioni di copy right.
La domanda chiave è quale percentuale del Pil di ciascun Paese rappresentano le esportazioni verso gli Stati Uniti e qual è la differenza rispetto al valore delle merci importate. Dal grafico seguente risulta evidente che proprio Canada e Messico erano tra i paesi più sbilanciati e lo stesso vale per le fabbriche del mondo asiatiche, a partire appunto dalla Cina. Ma ci sono anche Taiwan e Thailandia.
Molto meno pesante è invece la situazione in cui versano i rapporti tra Stati Uniti e Paesi dell’Unione Europea, per cui la data cerchiata sul calendario è il prossimo 2 di aprile. I giochi diplomatici tra Washington e Bruxelles proseguono anche sottotraccia anche con i singoli Paesi dell’eurozona nella speranza di sventare il peggio. La stessa premier italiana Giorgia Meloni si è spesa più volte per la liena del dialogo.
In ogni caso resta, da capire come farà Trump a sbrogliare la matassa perchè nel mercato globalizzato ogni barriera rischia di diventare un boomerang. Particolarmente delicata è infatti la catena delle forniture e la logistica dei container, come si evince per esempio dal caso microchip.
Un settore di cui Taiwan è leader mondiale e che assicurano al piccolo paese asiatico un ampio margine di guadagno nei propri commerci con gli States. Proprio i microchip di Taiwan rappresentano però componenti essenziali perchè le aziende Usa continuino a produrre e a dare lavoro ai cittadini americani come vuole Trump.
Non solo, va detto che se è vero che Wall Street e Nasdaq pesano per circa il 66% sui mercati azionari globali, dall’altro lato le multinazionali a stelle e strisce fanno oltre il 40% dei propri affari in giro per il mondo, al di fuori del mercato domestico americano.
Per approfondire leggi anche: Allarme di Bankitalia sui dazi, Italia tra i Paesi più danneggiati.
I mercati azionari delle economie con cui gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale rappresentano circa il 27% dell’indice Msci world, spiega Schroders. L’Unione Europea è la più grande con una quota del 9%, seguita da Giappone e Canada con rispettivamente il 5 e il 3%. Si piazzano quindi Cina, Svizzera, Taiwan e India.
Insomma, soffocare l’economia europea o asiatica non conviene neppure agli Usa. E questo Trump, toni elettorali a parte, lo sa benissimo.