Criptovalute

Anche per le monete vince il digitale

Criptovalute

Un dilemma importante perché se le valute digitali fossero una moneta nel senso stretto del termine, non dovremmo mai ragionare (come facciamo spesso) di un eventuale sottostante. Dal momento in cui ha avuto fine la parità oro/dollaro nel 1971, le valute sono garantite quali mezzo di pagamento dagli Stati, ma non sono agganciate a nessun altro valore in termini di beni tangibili.

Non sappiamo ancora bene dove ci porteranno le attuali criptovalute ma, certamente, uno dei problemi di valutazione complessiva è quello sopra ricordato: mezzo di pagamento o uno strumento finanziario? E tutto questo anche alla luce della forte accelerazione delle grandi banche centrali sulle CBDC (Central Bank Digital Currency).

In ogni caso, il problema dell’evoluzione delle monete digitali non è solo quello della specifica “non moneta” o “strumento finanziario alternativo” che minaccia il potere costituito (d’altra parte, non c’è una banca depositaria, né un prestatore di ultima istanza), ma la logica (l’algoritmo) che la genera.

Silvio Micali, docente del MIT, l’inventore di Algorand, una delle blockchain più evolute ai nostri giorni, ci racconta che alla base di tutte le criptovalute (che sono associative per definizione, cioè non imposte dall’ alto) c’è un algoritmo di natura consensuale, diversificato e bottom up. Un mondo ad architettura aperta, anarchico e non conforme alle gerarchie precostituite dei mercati che “qualcuno” potrebbe considerare pericoloso.

Ecco perché la “paura” globale è tanta. Ed ecco perché la volatilità è altissima e la liquidabilità certa (forse) per le piccole somme, ma scarsa (quasi sicuramente) per le grandi. Ed è per questo che i mercati (finanziari, delle valute e delle cripto) hanno visto un’accelerazione repentina nel processo delle grandi banche centrali verso una delle innovazioni finanziarie più rilevanti del nostro tempo: la digitalizzazione della moneta come l’abbiamo sempre comunemente intesa.

Certo, molti commentano che la reazione delle banche centrali è determinata dal piano della Cina di far espandere a macchia d’olio lo yuan digitale. Ma la profondità e la velocità con cui si sta affrontando il tema delle CBDC ci aiuta a mettere a fuoco non solo alcune caratteristiche e peculiarità delle monete digitali, ma soprattutto i timori che percorrono la schiena dei grandi banchieri centrali. Perché il problema non sembra essere solo quello delle criptovalute in senso stretto ma, soprattutto, quello delle stable coins (Global Stable Coins, GSCs) delle Big Tech, modello Libra di Facebook.

 

Vediamo di comprendere i motivi reali di questi timori, partendo proprio dalle CBDC

L’ingresso di una moneta digitale di una banca centrale nel portafoglio di ciascuno di noi, infatti, potrebbe essere un evento capace di segnare una profonda rivoluzione nei comportamenti di tutti i giorni, e una sostanziale trasformazione del sistema dei pagamenti. Un sistema che a tutt’oggi è basato sul fatto che le banche centrali emettono normalmente due tipi di moneta che sono un loro debito diretto (iscritto a bilancio), e supportano la circolazione di un ulteriore tipologia di moneta, quella emessa dalle banche commerciali.

Le monete emesse dalla banca centrale sono il contante e i depositi delle banche commerciali che svolgono il ruolo di riserva bancaria. Le banconote fisiche sono accessibili a tutti e si scambiano direttamente fra i soggetti del mercato. Le riserve bancarie circolano solo fra gli istituti di credito.

Ed è proprio questo il problema della concorrenza tra stable coins e CBDC. Ci sono almeno 3 miliardi di persone al mondo che non hanno un conto corrente bancario e che potrebbero essere attirate da una Big Tech che emettesse una stable coin proprietaria (o consorziata). Altro che volatilità dei Bitcoin, altro che distinzione tra valuta e strumento finanziario. Il problema strategico sarebbe quello del governo sulla moneta e non solo. Di qui l’accelerazione delle grandi banche centrali per evitare “vuoti di potere” monetari e fiscali.

Ma non è tutto così semplice. Perché, se è vero che i futuri dollari, euro o yen digitali sarebbero di immediata percezione reputazionale in termini di sicurezza rispetto a Libra o ad altre stable coins, anche le CBDC pongono problemi strategici di privacy (e non solo) perché le monete digitali, per quanto pseudoanonimizzate in termini di dati, sono in realtà sempre tracciabili.

Oltretutto il problema non è solo quello della privacy, ma soprattutto quello dell’eventuale potere inquisitorio dell’Agenzia delle Entrate, del Ministero dell’Economia o della stessa banca centrale. Pensate ad eventuali tassi negativi applicati top-down su tutti i depositi che, con le monete fisiche, possono essere facilmente elusi ritirando contanti per stoccarli in cassette di sicurezza o altri luoghi sicuri.<

Oppure pensate al fatto che una massiccia immissione di CBDC potrebbe togliere uno spazio profondo al ruolo delle banche che verrebbero ad essere “ridotte” a mere società di consulenza sui servizi e di gestione sugli investimenti. E questo, per chi conosce i bilanci bancari, vorrebbe dire far sparire almeno quasi due terzi delle banche esistenti.

Uno sconvolgimento straordinario ma già quasi “scontato” in termini di aspettative sull’evoluzione dei mercati per i professionisti del settore. La grande trasformazione toccherà invece per i consumatori che, appena apriranno il proprio portafoglio digitale (magari allettati da operazioni tattiche di cashback) diventeranno come i giocatori di Fortnite: avatar che fanno transazioni con valute digitali attraverso un’intelligenza strategica che li controlla, senza alcuna possibilità di “anarchiche interdizioni“.

 

Che poi questo “Grande Fratello” sia quella delle banche centrali o degli immensi cloud server delle Big Tech, a quel punto, sarà solo un dettaglio.

 

 

Angelo Deiana

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