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I cali delle vendite hi-tech preoccupano le Big

Pandemia, guerra, crisi di approvvigionamento dei semiconduttori e soprattutto inflazione sono alcune delle cause del rallentamento delle vendite hi-tech dell’ultimo periodo, nonostante il mondo stia virando alla volta dello smart working; non sono, però, le sole ragioni per le quali si acquistano meno devices, principalmente desktop computers ma anche notebooks.

 

Sono degli ultimi giorni i dati del primo trimestre 2023 che hanno destato l’allarme di companies come Apple che accusa decrementi pari al 40,5%, a poca distanza, con altrettanti pesanti cali, Dell, HP, Lenovo ed Asus.

Lato mercati riscontriamo un Nasdaq ancora al di sotto dei livelli dopo il rimbalzo 2021 post pandemia (16.573,34 19 novembre), l’ultima chiusura (di oggi 10 aprile 2023) è infatti sulla linea dei 13.000 punti.

 

Questa diminuzione diffusa di vendite di personal computers non è attribuibile soltanto alle citate macro-cause bensì anche a decisioni di politica dei prezzi ed eccessiva rapidità d’innovazione in nome della quale il ritmo della commercializzazione di nuovi modelli è serrato per tenere il passo della concorrenza, o anticiparla.

 

Il quadro che si presenta oggi induce i produttori ad approfittare di questa pausa nella domanda al fine di apportare mutamenti strutturali nella logistica produttiva, infatti molte hi-tech USA, e non solo, starebbero valutando di abbandonare la Cina oltre che rifiatare nella produzione ravvicinata di differenti modelli che variano tra essi soltanto per poche caratteristiche, e ciò, naturalmente, non aiuta le vendite.

 

Era alquanto prevedibile che il colpo di coda della pandemia (e relativo aumento del tasso di disoccupazione), appesantito da crisi energetica ed inflazione a seguito dello scoppio del conflitto russo-ucraino, e la conquista da parte della Cina del 70% delle terre rare, avrebbe messo in crisi il settore della tecnologia causando eccessive scorte alle quali non sempre i managements hanno attribuito il giusto peso.

 

Tra l’altro, per chi volesse approfondire, i segnali d’allarme in tal senso erano già presenti tra dicembre 2022 e gennaio 2023 e le dinamiche che si stanno verificando ora erano state praticamente previste da chi scrive in un precedente articolo sull’argomento del 23 gennaio al seguente link https://www.nicolaporro.it/economia-finanza/economia/le-accelerazioni-pandemiche-disorientano-anche-le-big-tech/ .

 

È superfluo rimarcare che in questa crisi c’è anche lo zampino della Cina le cui aziende, sia con la progressiva colonizzazione tecnologica del mercato russo, sia con l’abbandono dei componenti made in USA per i loro dispositivi, nonché attraverso un’aggressiva politica dei prezzi, sono in grado di accorciare sensibilmente i tempi di produzione, lancio e commercializzazione di nuovi prodotti; ciò soprattutto perché la filiera dei componenti, a partire dalle materie prime, ha inizio dalla stessa Cina che, naturalmente, favorisce i propri brands sia in termini di tempi che prezzi.

 

Ulteriore concausa della crisi dei personal computers è la trasformazione delle abitudini tecnologiche dell’utenza media, o grande utenza dei consumatori; sono ormai circa 5 anni, infatti, che la tendenza è acquistare tablets e smartphones con grandi schermi in sostituzione di personal computers o notebooks, sia per ragioni di trasportabilità e connettività diretta con la rete ma anche di prestazioni che spesso non fanno rimpiangere i computers tradizionali.

 

Naturalmente l’inflazione, i tassi elevati ed i salari non adeguati alle esigenze della vita di ogni giorno fanno il resto e la scelta di personal computers è operata o da coloro che non ne possono fare a meno, o da chi, invece, ha necessità di particolari prestazioni in termini di potenza e grafica principalmente, e che soprattutto ha budget in linea con i prezzi proposti.

 

Altro aspetto, non dal minor peso specifico, è la trasformazione di molte aziende, principalmente banche, che forniscono ai loro consulenti, o agenti, tablets e non più notebooks come accadeva fino a qualche anno fa, e sempre per ragioni di praticità e taglio dei costi, oltre al progressivo smantellamento delle postazioni cosiddette fisse conseguente alla chiusura di sportelli fisici nell’ambito della transizione digitale.

 

In fine l’inflazionato tema della velocita del progresso senza riduzione dei prezzi ha sferrato il colpo finale al settore.

È praticamente logico che… se in periodi che possiamo definire normali si acquista un notebook ogni 2/3 anni, e non sempre l’ultimo modello, in tempi di crisi come quelli che il pianeta vive da 4 anni le priorità per i consumatori diventano altre; a conferma di ciò, infatti, si è prepotentemente sviluppato il mercato dell’usato, ricondizionato o refurbed che dir si voglia.

 

Ritengo plausibile, e probabile, che le grandi aziende produttrici investiranno sempre meno sulle linee dei computers e, per quanto possibile, cercheranno di ridurre i prezzi almeno per un periodo di tempo finalizzato al rilancio delle vendite; se non si rende appetibile un nuovo modello rispetto ad un ricondizionato in perfette condizioni è difficile che si recupererà terreno … nonostante i pagamenti rateali ad interessi zero perché le famiglie sono in pesanti difficoltà.

 

In ogni caso l’ultima parola spetterà alla Cina perché a tenere banco nei prossimi anni (o forse mesi) sarà la questione Taiwan, primo produttore al mondo di componentistica nonché sede di molti punti di produzione di aziende occidentali.

Ovviamente crisi settoriali di questo tipo si contrastano con l’innovazione costante ma non fulminea, con una rinuncia (non per sempre) ad una parte dei profitti livellando i prezzi verso il basso o con drastiche decisioni che potrebbero spingere alcune aziende a rinunciare definitivamente alla produzione di personal computers, ed alcune hanno già anticipato i tempi.

Antonino Papa, 12 aprile 2023

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