Relazione

Sull’obbligo vaccinale si chiude il governo di unità nazionale?

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A febbraio avremo un nuovo governo? Se un indizio è un indizio e due indizi sono una coincidenza, tre indizi fanno una prova. Primo indizio: Giancarlo Giorgetti, ministro, capo delegazione della Lega al governo e grande sponsor di Mario Draghi come futuro presidente della Repubblica è stato assente al consiglio dei ministri del 5 gennaio scorso che ha imposto l’obbligo vaccinale agli over 50, togliendosi dall’imbarazzo di contrastare, per conto di Matteo Salvini, la linea più rigorista del presidente del consiglio.

Secondo indizio: Beppe Grillo, dopo anni di controdiscorso di fine anno ha deciso di tacere la notte del 31 dicembre, per poi stroncare come “orwelliana” la scelta del governo di introdurre per una parte della popolazione l’obbligo vaccinale.

Terzo indizio: Mario Draghi ha ritenuto di tacere e di non spiegare pubblicamente, mettendoci la faccia, agli italiani i contenuti del decreto legge, probabilmente il più importante e quello che genererà più dibattito nell’opinione pubblica, del suo mandato.

La faglia di frattura fra i partiti e Draghi si è rapidamente divaricata dopo che il presidente del consiglio ha dato per compiuto il suo compito alla guida del governo e implicitamente offerto alle forze politiche la propria disponibilità a trasferirsi da Palazzo Chigi al Quirinale. Per i partiti è stato il richiamo della foresta.

Nonostante la variante Omicron si sia scagliata sull’Europa con un’impatto devastante dal punto di vista della viralità, promettendo un inverno di incertezze sul fronte della tenuta dei sistemi sanitari e produttivi, per alcune forze politiche è arrivato il momento di chiudere la parentesi del governo di unità nazionale. Con l’obiettivo di riprendere in mano le leve del controllo diretto del governo, sogno inconfessato del PD, o per prepararsi, come pensa Salvini, alla fase pre-elettorale, breve o lunga che sia, da una posizione di opposizione, togliendo questa condizione di presunto vantaggio alla sola Giorgia Meloni.

I partiti nelle prossime settimane giocheranno dunque quattro partite decisive, una dentro l’altra come una matrjoska di potere dove ogni partita racchiude in sé un altro vero obiettivo: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, la designazione di un eventuale nuovo presidente del consiglio, la chiusura o meno del governo di unità nazionale, la conseguente definizione di un nuovo perimetro di alleanze governative che di fatto darà l’avvio alla nuova campagna elettorale, anche in caso di scadenza naturale della legislatura.

La democrazia pretende le sue prerogative. Mario Draghi potrebbe ritrovarsi ad essere usato in questo contesto dai partiti per obiettivi chiaramente di parte e non per lo scopo primario di superare la crisi pandemica ed economica. Spostato al Colle e senza lo spirito di unità nazionale anche la sua reputazione, come mostrano gli ultimi dati in rialzo dello spread che scontano questa ipotesi, potrebbe poco nel proteggere il futuro presidente del consiglio. Chiunque egli sia, sarà certamente meno carismatico e capace di affrontare le sfide dei mercati finanziari, soprattutto se si trovasse di fronte ad un’opposizione ancora più animosa e numericamente rappresentata in Parlamento.

Da febbraio il governo dovrà gestire il picco della variante Omicron con le forze politiche che hanno dimostrato vorranno sempre di più distinguersi sul tema dell’obbligatorietà vaccinale. E su questo specifico punto le maggioranze parlamentari potranno essere anche a geometria variabile. Lo spirito anti-scientifico delle destre e del M5S, dopo l’uscita di Grillo, potrebbe ricompattarsi impedendo al futuro esecutivo di attuare un’azione coerente con le scelte compiute finora dal governo Draghi.

Nei palazzi romani chi vuole proteggere la legislatura, e con essa la pensione e ulteriori dodici mesi di indennità parlamentare, sa bene che l’accordo sul futuro presidente della Repubblica non potrà essere svincolato alle altre tre partite. Tutto si deve tenere insieme. O tutto crollerà insieme.

Quirinale, Palazzo Chigi, conferma dello spirito di unità nazionale e fermezza sulle misure sanitarie. Una nuova fase con un diverso perimetro di alleanze dentro la maggioranza che riproponesse la contrapposizione fra sovranisti e europeisti, fra presunti libertari e fautori dell’obbligo vaccinale sarebbe certo un azzardo per la tenuta del Paese, ma anche un momento di chiarezza politica che forse l’Italia non può più rimandare.

In un cambio di paradigma così netto, dove lo spirito di unità verrebbe spazzato via dall’esigenza della contrapposizione delle diverse visioni politiche in tema di contrasto alla pandemia, di attuazione sul piano energetico del PNRR, ad esempio sul ruolo che gas e nucleare devono avere nella fase di transizione energetica, sui temi fiscali, sulla gestione dei confini e dell’immigrazione, sui diritti civili, chi si farebbe carico di rappresentare la guida di un eventuale “governo Ursula” e di fatto mettersi alla testa della coalizione elettorale che sfiderà le destre alle prossime elezioni politiche?

Se l’idea è chiudere la parentesi dell’unità nazionale spostando Draghi al Colle, Draghi dovrebbe rifiutare la trappola che gli stanno preparando alcuni dei suoi alleati di governo, ma nemici ideologici. Draghi promosso garante e arbitro è un Draghi tolto alla squadra dell’europeismo, dell’atlantismo, della competenza, della solidarietà. L’Italia ha bisogno di una offerta politica basata su questi valori e di leadership finalmente capaci di incarnarla.

Quale sarà l’ultimo pezzo della matrjoska, il cosiddetto “seme” che non contiene null’altro al suo interno e sul quale far nascere senza inganno la nuova pianta della democrazia italiana lo scopriremo a Montecitorio, a partire dal 24 gennaio. 

Antonello Barone, 8 gennaio 2022
 
 
 
 

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