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Elena Ferrante: la Giuseppi Conte della letteratura

Ed ecco, puntuale, arriva il nuovo romanzo di Elena Ferrante, un caso editoriale internazionale che ben rappresenta la nostra Italia: un fantasma. Una entità astratta che ha fatto del proprio qualunquismo populista messo su carta la cartina tornasole in questi tempi cupi dove a rappresentarci ci sono Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e altri signori “nessuno”.

Come Elena Ferrante: un nessuno che ribalta il governo delle lettere facendo uno sgambetto ai letterati, veri, con manovre di establishment degne del peggior Giuseppi.

Il segreto del suo successo? Un’abilissima operazione di marketing che, dietro il mistero della scrittrice senza identità, è riuscita a creare un caso non solo italiano ma anche, e soprattutto, americano. Il problema di questa anonymous della letteratura è che rappresenta alla perfezione un mondo, non solo editoriale, che al «Cosa si scrive» ha sostituito il «Chi scrive». Il successo degli autori ha sostituito il «successo» dei contenuti. Genialmente, ed è questo il suo primo merito, è riuscita a far comprendere come oggi il brand sia molto più importante del prodotto in sé. Nel commercio si sa da anni che un jeans di una certa marca costa, alla fonte, uguale a quella dell’ultimo fabbricante di «Cantù-Cermenate» (per citare il Magnozzi di “Una vita difficile” di Dino Risi), ma nel mondo editoriale è una verità che nessuno sino a oggi aveva voluto denunciare. E la Ferrante la attualizza paradossalmente: proprio il nascondere la propria identità, a cui i giornali hanno dedicato decine e decine di pagine, ha imposto i suoi romanzi attraverso il brand, facendo dimenticare a critici e lettori i contenuti per lo più ispirati da una Anna Maria Ortese che scrive con l’inchiostro simpatico (quello che svanisce appena si legge). Altro merito di Elena Ferrante è di aver dato nuova linfa economica a una casa editrice come e/o, che negli ultimi anni aveva perso il coraggio degli inizi.

Risolviamo subito il dubbio: chi è davvero Elena Ferrante? Dopo anni di articoli, editoriali, finti scoop, la soluzione è semplice, semplicissima. È lei stessa a scriverlo nel suo romanzo Storia della bambina perduta. L’amica geniale, volume quarto: «Non è nessuno. E per chi non è nessuno, diventare qualcuno è più importante di qualsiasi altra cosa». Ecco la soluzione. La Ferrante non ha fatto altro che mettere in pratica ciò che ha scritto. Perché è nessuno. E per dimostrarlo non è necessario, come ha fatto la critica, scomodare chissà quali interpretazioni. Basta leggere i suoi romanzi. Vi basti qualche frase, estrapolata da contesti ancora più noiosi. «Se non c’è amore, non solo inaridisce la vita delle persone, ma anche quella delle città» (neppure la Susanna Tamaro dei tempi migliori arrivava a tanto); «Vuoi bene per tutta la vita a persone che non sai mai veramente chi sono» (qui siamo a un Jacques Prévert incenerito dalla lava del Vesuvio); «Devo reimparare il passo tranquillo di chi crede di sapere dove sta andando e perché» (qui, invece, siamo al Sudoku o agli articoli del filosofo Umberto Galimberti); «Il futuro, da un certo punto in poi, è solo necessità di vivere al passato» (siamo tornati ai presocratici); «Dovevo strapparmi il dolore della memoria, dovevo scartavetrare i graffi che mi guastavano il cervello» (vi immaginate a strapparvi il dolore dalla memoria e scartavetrarvi il cervello?).

E ancora: «Quando si è al mondo da poco è difficile capire quali sono i disastri all’origine del nostro sentimento del disastro, forse non se ne sente nemmeno la necessità. I grandi, in attesa di domani, si muovono in un presente dietro al quale c’è ieri o l’altro ieri o al massimo la settimana scorsa: al resto non vogliono pensare. I piccoli non sanno il significato di ieri, dell’altro ieri, e nemmeno di domani, tutto è questo, ora» (qui siamo alla caverna di Platone riscritta da Margaret Mazzantini). Oppure: «Mi lasciava portandosi via tutto quel tempo, tutte quelle energie, tutte quelle fatiche che gli avevo regalato, di punto in bianco» (Michela Murgia se rileggesse ciò che scrive). La Ferrante è un tavor cartaceo, autrice di romanzi che confinano pericolosamente con il più melenso degli «Harmony».

Quando poi la Ferrante (magari fosse il «Don Ferrante» manzoniano) si inoltra nei vicoli d’inchiostro dell’amore e del sesso siamo ad un incontro di boxe tra l’autoerotismo di Philip Roth e un aforisma di quel «vecchio sporcaccione» di Charles Bukowski: «La sua propensione a chiavare non proveniva da una grezza, ingenua esibizione di virilità fondata su luoghi comuni mezzo fascisti mezzo meridionali. Ciò che mi aveva fatto, ciò che mi stava facendo, era filtrato da una consapevolezza molto affinata. Lui maneggiava concetti complessi, lui sapeva che a quel modo mi avrebbe offesa fino a distruggermi. Ma lo aveva fatto ugualmente. Aveva pensato: non posso rinunciare al mio piacere solo perché quella stronza può rompermi il cazzo».

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