L'inattuale

Giudici imbellettati, giustizia morta

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Dal salone delle Cariatidi è stato inaugurato un nuovo, prodigioso, anno giudiziario. Un rito stanco, solenne fin quasi al ridicolo che si ripete tutti i santi anni. Inattuale, ma in senso spregiativo. Negli ampi saloni della corte di Cassazione, alla presenza delle eccellenti Cariatidi, nel senso greco del termine ovviamente, avvolte nei loro mantelli rossi impellicciati di povero ermellino (o dalmata vista la tinta a pois) da far invidia a Crudelia Demon, aleggia l’acre odore di formaldeide.

Risibili i tentativi di autoassolversi da una gestione della giustizia talmente tremenda che ormai non fa più nemmeno scalpore. Si odono gli alti magistrati usare un linguaggio degno dei più eruditi della legge, pieno di vocaboli forbiti che nei fatti non significano niente. Fuori dai saloni di marmo, nella triste quotidianità senza pelliccia i processi hanno durata biblica, le carceri sono sovraffollate e quando chi c’è dentro non si suicida vi ci finiscono sempre più spesso innocenti o si fanno uscire criminali per i motivi più impensabili.

Tutto sa di stonato, di superfluo, di cattivo gusto in queste cerimonie pompose, insensate in un momento storico così travagliato come questo dove alla giustizia sarebbe demandato il supremo compito di garantire almeno la tranquillità del sonno a quei pochi onesti cittadini che rimangono. E invece no. I reati più odiosi, quelli definiti ipocritamente “minori” restano impuniti mentre l’occhio di Dike si posa con attenzione morbosa sulle magagne dei politicanti di turno o, ancor peggio, sugli inevitabili illeciti che le (poche) grandi imprese rimaste in Italia compiono, paralizzando attività di pubblico interesse e indebolendo l’economia.

Tra una misurazione della pressione arteriosa e l’altra (in genere più è alta la Magistratura più precarie sono le condizioni di salute di chi la esercita) ogni tanto si accenna a discutere di come migliorare l’attività della giustizia. Soluzioni che non portano mai a nulla, ma tanto si sa, basta perseguire i crimini più “mediatici” e la sacra missione è compiuta. Che importa se la donna borseggiata, l’anziana scippata o il disabile a cui hanno occupato la casa vedono i loro aguzzini sorridenti e liberi di scorrazzare senza che nessuno li tocchi.

Questo evento è un po’ come la messa di Natale; l’uditorio semi-dormiente è obbligato per una legge non scritta a presenziare. Echeggiano parole incognite come “funzione nomofilattica” e “orizzonte interpretativo”. Dopotutto questa è la patria del diritto e i tribunali i suoi templi, ormai sconsacrati. Gli interventi che si susseguono sono nei fatti autocritiche destinate a non uscire mai dal salone marmoreo. Alla fine giunge scrosciante l’applauso, non si sa bene a cosa, e le pellicce di ermellino tornano a svolazzare verso l’uscita, pronte a essere riposte nella plastica fino al prossimo anno giudiziario. Sia mai che si tarlino.

Francesco Teodori, 27 gennaio 2024

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