L’8 e il 9 giugno gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su cinque referendum abrogativi promossi dalla Cgil e da movimenti civici, con l’appoggio entusiasta del Partito Democratico. Al centro della consultazione ci sono norme sul lavoro e sulla cittadinanza, tra cui spicca il tentativo di cancellare il Jobs Act, riforma simbolo del governo Renzi. Un paradosso lampante: la sinistra oggi si batte per smantellare ciò che ieri ha orgogliosamente costruito, in un cortocircuito che rivela tutta la sua incoerenza politica.
Non è una novità. La sinistra italiana governa adottando provvedimenti che poi disconosce una volta all’opposizione, affidando alla piazza – e ora ai referendum – il compito di cancellare quanto approvato attraverso la democrazia rappresentativa. Una sinistra bifronte, incapace di assumersi la responsabilità delle proprie scelte, che oscilla tra nostalgia ideologica e opportunismo tattico.
Maurizio Landini, oggi in prima linea contro le riforme del lavoro, non sollevò lo stesso clamore quando quelle stesse norme venivano varate. E il Pd, nel tentativo di recuperare il monopolio sull’opposizione sociale, si accoda a battaglie che smentiscono il proprio passato prossimo. Nella contesa interna tra Landini ed Elly Schlein, il dibattito pubblico finisce sacrificato sull’altare di una leadership in crisi di legittimità.
Non meno controverso è il quesito sulla cittadinanza, che punta a dimezzare i tempi per concederla agli extracomunitari. Ma l’Italia è già il paese europeo che concede più cittadinanze ogni anno. Difficile, dunque, giustificare la misura con esigenze reali: più facile leggere in questa proposta il tentativo di ampliare la futura base elettorale, sotto le mentite spoglie dell’inclusione.
Sul fronte economico, la proposta di ripristinare rigidità normative rappresenta un salto all’indietro pericoloso. L’Italia ha vissuto una profonda trasformazione del proprio tessuto produttivo: dagli anni Ottanta si è assistito a un progressivo declino dell’industria, accelerato da globalizzazione, delocalizzazione e rivoluzioni tecnologiche. Oggi i servizi dominano il Pil nazionale, con logiche lavoristiche flessibili, incompatibili con vecchie impalcature normative.
Ripristinare dispositivi sanzionatori e irrigidire i rapporti di lavoro significa frenare gli investimenti e disincentivare l’assunzione. Ma c’è di più: quando l’articolo 18 era in vigore, la sua applicazione variava in base alla dimensione aziendale. Le imprese con più di 15 dipendenti erano soggette a vincoli maggiori rispetto a quelle più piccole. Il risultato? Un’intera generazione di imprenditori ha evitato di crescere per non rientrare nella soglia delle imprese “grandi”. Se oggi l’Italia ha un sistema produttivo frammentato in micro e piccole imprese, lo deve anche a quella logica distorsiva. È un’eredità che continuiamo a pagare in termini di competitività, produttività e capacità di fare sistema.
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Il lavoro si difende non gravando il sistema di nuovi vincoli, ma creando condizioni favorevoli alla crescita. È questo l’approccio della Lega e del sottosegretario Claudio Durigon: contratti di inserimento a tempo indeterminato, sul modello spagnolo, che coniugano stabilità e flessibilità nei primi due anni; flat tax al 5% per cinque anni per i giovani fino a 40mila euro e fino a 100mila per chi rientra dall’estero; sgravi contributivi per tre anni alle imprese che assumono giovani con questa formula. Non sono slogan: sono misure concrete, con coperture già individuate per 2,1 miliardi di euro. Una strategia chiara: alzare i salari attraverso produttività, contrattazione, incentivi veri. Non con imposizioni dall’alto che rischiano di distruggere l’occupazione invece di rafforzarla.
L’occupazione si promuove, non si sclerotizza. Ma la sinistra, fedele al suo istinto demagogico, continua a confondere la tutela con la paralisi. Gli italiani, in questo scenario, non sono chiamati a scegliere solo tra “sì” e “no”. Sono chiamati a giudicare l’affidabilità di una classe politica che, priva di una visione moderna, rinnega il proprio passato per riesumare il proprio fallimentare trapassato. Più che un confronto tra idee sul futuro, i referendum di giugno rischiano di diventare l’ennesimo atto di autofagia di una sinistra in cerca d’autore.
Andrea Amata, 8 maggio 2025
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