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I campi rom vanno chiusi

All’apparire (improvviso e non previsto: forse non era in scaletta, forse gli autori non l’avevano immaginato…) di un momento di autenticità in uno studio televisivo, il conduttore – espressione corrucciata e immediato predicozzo per dissociarsi – ha subito preso le distanze.

Che è successo? Giovedì scorso, a Piazzapulita su La7, un cittadino romano presente nel pubblico, interpellato sui rom, ha detto che non sono uguali a noi. Applausi in platea. Le parole non erano ovviamente perfette, ma era evidente (a chiunque fosse in buona fede, non prevenuto, senza pregiudizi) che il ragazzo non intendeva dare al suo pensiero connotazioni razziste, xenofobe, legate a elementi etnici: esprimendosi come poteva – come un giovane di borgata, non come un cattedratico di antropologia culturale – voleva solo indicare una oggettiva e purtroppo innegabile diversità di comportamenti.

Quella che tutti vediamo: un numero non piccolo di persone appartenenti alla comunità rom non ha intenzione di integrarsi, non manda a scuola i propri bimbi, e – in un numero di casi purtroppo non limitato – si dedica (e fa dedicare i minori) a reati contro la persona e contro il patrimonio.

Davanti a questa spiacevole realtà, ci sono due approcci.

1. Il primo è una specie di “negazionismo”, tipico di certa intellettualità di sinistra: negare tutto, chiudere gli occhi, e dare immediatamente del razzista alla prima persona che osi fare obiezioni proveniente da una periferia. Anche perché – è bene ricordarlo – si hanno più possibilità di essere in prossimità di un campo rom se si vive in periferia, che non se si vive a Roma centro.

2. Il secondo approccio (che naturalmente deve evitare di accendere altri fuochi, deve trovare le parole giuste, senza dimenticare mai la bussola dell’umanità) è riconoscere la realtà, aprire gli occhi, e operare per correggerla. I campi rom vanno chiusi. È un errore pensare di integrare comunità (che nemmeno lo vogliono) anziché dedicarci, com’è giusto, a tentare di integrare gli individui e le famiglie. Si esaminino i singoli casi: se si tratta di cittadini italiani, facciano come gli altri, trovandosi un lavoro, pagando le tasse, mettendosi in graduatoria per una casa. Se si tratta di stranieri, si verifichi se sono regolari o irregolari.

Si torni (anzi: in Italia, si arrivi) a concetti elementari minimi: esistono le persone e le leggi. E tutti siamo chiamate a rispettarle, senza che una certa appartenenza (sociale o di comunità) ci porti in una “dimensione giuridica” diversa e separata. È un cammino lungo, ma è l’unico che possa funzionare, a mio avviso.

Daniele Capezzone, 15 aprile 2019

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