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Il meglio di Filippo, principe punk

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Il Principe Filippo saluta e se ne va. Lascia un vuoto enorme, ma davvero enorme, in tutti gli scapestrati allergici al fottutissimo politicamente corretto. Non si capisce che accidente abbia mai fatto nel corso della sua secolare esistenza, ma il suo mestiere era vivere la vita e non c’è dubbio che se la sia spassata fino in fondo. E se non è riuscito, come il conte Lello Mascetti, a sputtanarsi due patrimoni, il suo e quello della moglie Elisabetta, è solo perché gli emolumenti della Corona sono praticamente sconfinati.

Geniale gaffeur

Lo chiamavano gaffeur, e mai etichetta fu più ingrata. Quali gaffe, erano lampi di genio purissimo, scintille di umorismo inglese incontaminato degne di un Billy Mack, la rockstar di Love Actually e qui sta la grandezza dell’uomo e dell’aristocratico: un punk in tight e cilindro, un creativo al di là del bene, del male e dei social, che avrebbe letteralmente fatto esplodere così come dissestava protocolli, etichette, cronachette rosa. Arriva a Roma, negli anni ’60, in visita ufficiale e a un certo punto sparisce: s’era infilato in un circolo esclusivo a giocare a Polo. Quarant’anni dopo, non era cambiato di una virgola: al pranzo ufficiale col premier Giuliano Amato, che gli propone una lista dei vini più altolocati d’Italia, tramortisce tutti: “Dammi una birra, una qualsiasi, ma che sia una birra”. Siamo più dalle parti di Andy Capp che da quelle di Buckingham Palace. Donnaiolo incorreggibile, un infarto lo fulmina nel 2001 – e ha già ottant’anni, ma non lo ferma: dieci anni dopo non ha ancora smesso di correre la cavallina e debbono mettergli uno stent: lui, per niente preoccupato anzi già pregustando future gesta: “Arrivano i ricambi!”.

Filippo, duca di Edimburgo, principe del Regno Unito, conte di Merioneth, barone di Greenwich, in un secolo di storia ha seminato nell’universo monno semi di creatività inarrivabile col pretesto delle oltre ventiduemila occasioni pubbliche, dei cinquemilacinquecento discorsi, delle seicentotrentasette visite ufficiali. Ogni volta tornava lasciando qualcosa di sé. In Canada: “Sono lieto di inaugurare questo affare, qualsiasi cosa sia”. In Scozia, a un istruttore di guida: “Come fa a non far sbronzare i suoi connazionali almeno per l’esame?”. In Kenia, incontrando una autoctona: “Lei è una donna, giusto?”. In Australia, con un imprenditore aborigeno: “Vi tirate ancora le lance?”. A un reporter inglese tornato dalla Papua Nuova Guinea: “Ce l’hai fatta a non farti mangiare, eh?”. A un altro imprenditore nero: “Da quale parte esotica del mondo esce fuori lei?”. A degli operai inglesi da lungo tempo in Giappone: “Come mai non vi sono ancora venuti gli occhi a mandorla?”. Perfettamente a suo agio in ogni spicchio di globo, Filippo sa sempre cosa dire ad ogni latitudine. In Bangladesh incontra alcuni giovani e subito li conforta: “Ok ragazzi, tirate fuori la droga”. Alle isole Cayman s’informa: “Siete tutti discendenti di pirati, qui?”.

Imperversa naturalmente anche nel suo Regno, quello Unito, dove anzi dà il meglio. Nella natia Edimburgo, in uno stabilimento trova un marchingegno malmesso: “Sembra fatto da un pellerossa”. Quando gli arrivano le proteste dei nativi americani, rimedia da par suo: “Volevo dire un cowboy”. In Scozia si esalta, ospite di un istituto femminile: “Cucinate da far schifo”. Con squisita signorilità principesca riceve il presidente della Nigeria che si presenta in visita ufficiale adorno d’abiti tradizionali: “Ma ti sei messo il pigiama?”. Va peggio all’ambasciatore irlandese che gli reca un cesto regalo: lui ci guarda dentro e s’inalbera: “E dove diavolo è il whisky?”. Ha ragione, è lesa maestà. Accoglie, in una serata di gala per le Indie Britanniche, un imprenditore indiano, Atul Patel, e lo saluta: “Lei si è portato buona parte della sua famiglia a cena, vedo”. E anche il cerimoniale è sistemato.

Quella sulla cucina cinese…

Irrefrenabile Filippo, sempre avanti coi tempi: immaginarsi che sarebbe successo oggi, epoca di conformismo plumbeo, soffocante, con un’uscita del seguente tenore a proposito della cucina cinese: “Se ha quattro zampe e non è un tavolo, se vola non è un aeroplano, se nuota e non è un sottomarino, potete star certi che i cinesi lo mangeranno”. Siamo ad altezze aforistiche degne d’un Frank Zappa, Zuckerberg il boss di Facebook si sarebbe suicidato. E Jack Dorsey, padre padrone di Twitter, si sarebbe impiccato colla sua stessa barbona hipster agli squarci di profonda umanità del Nostro Eroe. Come quando, all’ospedale di Luton si ferma democraticamente a conversare con una infermiera filippina: “Avete svuotato il vostro Paese, siete venuti tutti qua a lavorare per il servizio sanitario nazionale britannico”. Arriva a Palazzo un ragazzino che sogna di fare l’astronauta e subito gli regala una perla di realismo: “Naah, sei troppo grasso per andare nello spazio”. Appassionato davanti a certo David Miller che guida un nuovo modello di scooter per disabili: “Quanti ne hai investiti con quel coso stamattina?”. Intenerito con un gruppo di ragazzi non udenti, sistemati nei pressi di un assordante concerto di percussionisti: “Ora capisco perché siete diventati sordi”.

Rockstar

Filippo è la vera ed unica rockstar di Buckingham Palace, “se ne frega di tutto sì” e tratta da pari a pari gli altri dèi del rock. Al concerto di Elton John non ne può più: “Il mio regno per spegnere quel microfono!”. Sempre ad Elton, che staziona spesso a Windsor: “Ma allora è tua quella trappola orribile che trovo sempre parcheggiata!”. Tom Jones, altra gloria del Regno, gallese, lo cresima così: “Canti come se facessi i gargarismi coi ciottoli”. Uomo di cultura, sa apprezzare le arti e i talenti; di fronte ad un’opera etiope, trova che “sembra fatta da mia figlia alle elementari”. Proprio per la figlia, Anna, tradisce l’amore che solo un padre può nutrire: ancora scosso, dopo un tentativo di rapimento, dichiara alla stampa: “Chi voleva portarla via non sa che fortuna che ha avuto”. E sulla profonda passione di Anna per i cavalli: “Se non mangia fieno e non scoreggia, a lei non interessa”, e siamo già a Rod Stewart.

Il vecchio satiro ha una attrazione indomabile per la parte migliore dell’umanità e può essere considerato l’augusto inventore del cat calling: di fronte a una schiena particolarmente invitante, quella di Hannah Jackson, a 90 anni freme come un purosangue: “Se tiro giù quella zip, mi arrestano”. Sempre in tiro, noblesse oblige. Cate Blanchett, la star di Hollywood, è radiosa e lui sa come ripagarla: “Visto che fai film, mi aggiusti il lettore dvd?”.

Filippo uno di noi

Perché Filippo era più uno di noi, noi insofferenti, noi scorretti, anche se lui era lui e noi eccetera eccetera? Perché non si teneva un cecio in bocca manco con la sua real famiglia. Gli propongono certi bozzetti d’arredamento della duchessa di York, Sarah Ferguson, che lui non regge proprio: “Sembra la casa di una mignottona”. Totalmente se stesso anche con la plebe, per quanto affermata: “Ah, dunque è lei il responsabile di tutte le porcherie che trasmette quel canale”, apostrofa un facoltoso proprietario di un network nazionale. Ma la sua immagine più iconica resterà probabilmente lo scatto da rockstar con un fotografo che non si decide: “Ma vuoi fare quella fottuta foto o no?”.

God save the Queen, she ain’t a human being: la cantavano i Sex Pistols nel ’77 ma poteva benissimo essere farina del sacco di Filippo. “Quando un uomo apre la portiera alla moglie, o è nuova la macchina, o è nuova la moglie”. Roba da asfaltare in un sol colpo tutte le metoo del pianeta.

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