Chiesa

Medio Oriente

Il Papa vede i parenti degli ostaggi, ma li liquida in 20 minuti

Due udienze distinte in Vaticano: prima la delegazione israeliana, poi quella palestinese. Polemiche sull’uso del termine “genocidio”

Papa Francesco famiglie ostaggi israele

C’è chi parla di circa mezz’ora, chi invece assicura non si sia andati oltre i venti minuti. E per carità, l’agenda del Papa sarà pure l’agenda del Papa, fatta di udienze, rinunce, nomine, appelli, Sante Messe e occupazioni tipiche di un sovrano divino. Però l’incontro in Vaticano tra Francesco e 12 familiari degli ostaggi israeliani rapiti a Gaza non è andato esattamente come ci si attendeva. Ha lasciato più amaro in bocca che speranza. Sia per i tempi, sia per i modi.

La visita era stata preparata col bilancino. Stile par condicio. Ai 12 familiari israeliani ha fatto subito seguito una delegazione di 10 persone (cristiane e musulmane) di parenti di palestinesi della Striscia. I primi ricevuti alle 7.30 del mattino a Santa Marta, i secondi alle 8 nell’auletta Paolo VI. Ufficialmente, Bergoglio ha manifestato “angoscia” e “partecipazione al dolore” ad entrambe, ha rivendicato il “diritto alla pace” e parlato di “due popoli fratelli”. Ma nella pratica c’è stato più di un malinteso. Yehuda Cohen, padre di un 19enne rapito dal Movimento islamico il 7 ottobre, nella successiva conferenza stampa al centro ebraico Pitigliani non ha nascosto di essere rimasto deluso “perché non c’è stato il tempo per parlare con tutti”. Giusto due chiacchiere e via. Inoltre, il Papa “ha chiesto la fine della guerra ma non ha menzionato Hamas”. Né, soprattutto, l’ha mai definita una organizzazione terroristica. Per carità: altri familiari conservano la speranza che il lungo viaggio possa essere utile in qualche modo in vista delle trattative per il rilascio degli ostaggi. Ma tutti riconoscono che il tempo messo a disposizione da Francesco sia stato un po’ pochino. Giusto giusto il minimo indispensabile.

Non è la prima volta che Bergoglio solleva mugugni su Israele. Lo scorso 6 novembre, a un mese dal massacro commesso da Hamas, l’ultima incomprensione: il Papa aveva ricevuto i rabbini europei, li aveva salutati, aveva consegnato loro il discorso ma poi se l’era filata accampando “problemi di salute”. Ufficialmente, un raffreddore. Indisposizione che aveva impedito al Santo Padre di intrattenersi a lungo con i rabbini, ma che nel pomeriggio gli aveva permesso di incontrare, sorridente e in apparente buona forma, migliaia di bambini da tutto il mondo. Ma si sa: dalle parti di San Pietro i miracoli sono di casa.

Ciliegina sulla torta. La delegazione palestinese, uscita dall’udienza, raggiante ha riferito che il Pontefice avrebbe concordato con loro sul fatto che il popolo di Gaza stia subendo un “genocidio”. Genocidio da parte di Israele, ovviamente. Il Segretario di Stato, Pietro Parolin, si è affettato a smentire (“è irrealistico”), anche perché il termine tecnico ha “conseguenze molto precise a livello internazionale”. E soprattutto significherebbe che Bergoglio, il quale “normalmente si riferisce in termini generici” alle questioni spinose, tanto da guardarsi bene dal nominare Hamas o il terrorismo, non avrebbe applicato lo stesso principio su quanto accade a Gaza. Tradotto: due pesi e due misure.

Di sicuro però sarà andata come dice Parolin. È irrealistico che il Papa lo abbia detto davvero. Anche se i palestinesi giurano di non avere le traveggole: “Siamo in dieci e lo abbiamo sentito tutti”.

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