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In nome della “tolleranza” stiamo comprimendo le libertà

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La storia della nostra piccola porzione di mondo è stata riscritta, nell’età moderna, dal trionfo della tolleranza, che si configura come una vera e propria dottrina politica. La concessione della libertà di professare qualunque confessione religiosa (o nessuna religione) era presupposta da tutti i grandi teologi, da Agostino, a Tommaso, a Lutero fino a Calvino. Ma la realtà delle cose era assai differente.

In questo breve saggio, dopo un excursus sul mondo antico – dal quale ci giunge una lezione di realismo politico: i cristiani imploravano tolleranza quando erano una minoranza perseguitata nell’Impero, salvo poi negarla ai pagani non appena diventarono la schiacciante maggioranza – viene affrontata la questione nel periodo della fondazione dello Stato (moderno). Il potere sovrano, proprio nel momento della sua nascita, che coincide con la riforma, si rende conto di dover relegare la questione della salvezza dell’anima a fattore non politico e quindi irrilevante. La tolleranza è il “cicatrene” del potere di fronte a una ferita apparentemente insanabile: la fine dell’unità cristiana. Si tollera, ossia si sopporta pazientemente, che alcuni sudditi abbiano credenze religiose devianti.

Tolleranza, libertà religiosa e neutralizzazione del conflitto da parte del potere sovrano diventano le caratteristiche di un percorso tutto europeo che si snoda dai primi decenni del Cinquecento fino alla fine del Settecento. La Rivoluzione, almeno idealmente, con le sue Carte dei diritti, chiude l’era della lotta per la tolleranza e apre una fase nella quale il potere sovrano allarga, ovvero restringe gli spazi che però devono essere quelli di libera manifestazione del pensiero. I diritti di libertà vengono proclamati in modo quasi sacrale salvo poi essere sistematicamente violati, non solo durante il periodo dei “totalitarismi” duri del Novecento, ma anche in quello dei totalitarismi dolci come il nostro.

Parallelamente si snoda il percorso dell’intellettualità europea, che si interroga da sempre su libero arbitrio e razionalità umana. In fondo se non possiamo essere certi né della verità in sé, né delle procedure corrette per raggiungerla, esiste una via verso la tolleranza che muove dall’ignoranza. Da Erasmo a Spinoza, da Milton e Bayle la tolleranza si fonda su una sorta di proto-fallibilismo etico. Siamo liberi perché fallibili, per citare un saggio di Dario Antiseri.

La civiltà che ha lottato strenuamente per l’affermazione dei principi di tolleranza oggi ne sta decretando la scomparsa e quindi l’ultima parte del saggio è dedicata al politicamente corretto e al declino della libertà accademica. La censura, una vera e propria cappa della polizia del pensiero colpisce ogni maschio bianco né gay, né di sinistra che possa, anche solo potenzialmente partecipare al dibattito pubblico. Solo il ceto dei lavoratori della mente, dei mercanti di parole è sottoposto alle occhiute attenzioni di una ortodossia tanto ingombrante quanto sfuggente nella sua localizzazione.

La tolleranza, che nasce come urgenza primaria della sovranità, diventa il vero brodo di coltura dello Stato e il liquido amniotico del potere nel corso dell’età moderna. Oggi quell’umanesimo totalitario che va sotto il nome di correttezza politica si ripresenta come una questione di potere, intellettuali e secolarizzazione civile. In nome della tolleranza, dell’inclusione, della lotta senza quartiere a ogni fobia, si stanno ormai dissolvendo i fondamenti stessi della libertà accademica. L’idea di tolleranza ha fatto il suo tempo e ha svolto il suo compito: ha creato un unico soggetto di diritto, un suddito, o cittadino, la cui sfera religiosa è indifferente quanto la religione stessa. Oggi è il disciplinamento degli studiosi in un mondo senza Dio a essere il problema cruciale del potere e siamo in attesa di un grido o di un lamento levato a vincere d’improvviso la Nuova Inquisizione.

Liberilibri, 29 maggio 2023

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