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La grande lezione di Don Pino Puglisi

don pino puglisi

Per decidere di restare dove si è, senza scappare, terra e anima si devono necessariamente mescolare e in quel suolo fertile si può cominciare a scavare, piano piano, fino a che, pur stando lì, non si toccherà un luogo uguale e diverso in cui la carne non è solo carne.

D’altronde solo se si riconosce in primis la propria di anima, per una limpida corrispondenza, ci si può accorgere di tutte le altre, di tutte quelle che incontri ogni giorno; a volte pare addirittura di vederci doppio, perché ogni essere intreccia spirito e corpo. Quando dunque si inizia a guardare così, niente è più come prima, non si può più far finta di non vedere, a meno che non si limiti anche se stessi, pagando con un’esistenza priva di passione e sugo. Se si accetta invece di lasciarsi provocare, allora si sperimenta una tensione continua tra il bene che si intuisce e la realtà data, e in quella ferita si gioca istante per istante la nostra libertà; possiamo dire di sì o di no, sapendo che a ogni sì c’è un plus di vita che si chiama incontro.

È un modo di stare sulla terra che prevede il cielo, un coinvolgimento di tutto, senza essere schiavi di niente. Ecco, è questo forse l’aspetto più eclatante, non si è schiavi di niente e di nessuno, nemmeno di chi ti fa del male, perché si ha coscienza che l’ultima parola ce l’avrà il bene. Sempre. Con questo cuore si può stare anche in un luogo difficile come Brancaccio, un quartiere comandato dalla Mafia dei fratelli Graviano, legati ai Bagarella, in cui Don Pino Puglisi arriva come parroco il 29 settembre 1990.

In Ciò che inferno non è D’Avenia ci racconta del suo prof, un uomo certo di Dio e basta: “A che serve parlare di Dio? Se io ti spiego l’amore, tu ti innamori? Quando ti innamori di una ragazza, forse prima te la spiegano? Dio bisogna darlo poi dirlo, Dio lo tocchi o non c’è teorema che te lo possa far piacere”. Padre Puglisi decide di camminare lì, in quel quartiere, di consumare le sue scarpe per portare in dono una fiamma di bellezza alle prostitute, divenute tali perché costrette, ai poveri, ai bambini, figli di nessuno, per creare, creare, creare tra i ruderi della malavita senza armatura né inutili spiegazioni.  “Anche io, se fossi nato nel palazzo di via Hazon non avrei avuto scelta, se nasci all’inferno hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è, per concepire che esista altro.

Per questo bisogna cominciare dai bambini, bisogna prenderli prima che la strada se li mangi, prima che gli si formi la crosta intorno al cuore. Ecco perché sono necessari un asilo e una scuola media. Non ci vuole la forza, ci vogliono la testa e il cuore. E le braccia. Non hai idea di cosa si può fare con queste tre cose”. Per raccontare loro che cos’è il Paradiso, Don Pino fa una cosa semplice, ma generante: li guarda quei ragazzini, li guarda con tutta la loro anima e loro sperimentano uno sguardo eccezionale su di sé, un qualcosa che lì rimette al mondo, proprio lì, dove sono. Lui sa che un bambino non guardato, è un bambino perduto, perché non intuisce la luce della cura, della tenerezza che permetterebbe al suo seme di attecchire, lì a Brancaccio non c’è spazio per il sogno, per l’immaginazione, “Troppi sono condannati a morire da vivi, troppi sono interrotti prima ancora di allungarsi verso la felicità, prima di amare”.

A Brancaccio però, se guardi, se vedi troppo, puoi anche morirci. Don Pino è un don senza potere, non senza forza, ha una forza disarmata, non superiore alla violenza, ma ulteriore alla violenza, perché è una forza che trasforma il cuore e che abbraccia il singolo nel tutto, dandogli significato. Come i mosaici del duomo di Monreale.

“Sai quante tessere ci sono nei mosaici del duomo di Monreale?” “No.” Risponde Federico. “Neanche io” riprende padre Pino “nessuno ha mai avuto il coraggio di contarle. Eppure, è la superficie di mosaico più vasta del mondo. E ogni tessera, per quanto piccola, è importante. […] Le tessere che compongono quei mosaici, prima sono milioni, separate le une dalle altre, ciascuna con il suo colore, la sua forma, le sue imperfezioni. Poi tutte vanno a comporre l’immagine, l’immagine di Dio. Noi siamo come tessere che, disposte una accanto all’altra, insieme realizzano la polifonia di Dio nel mondo. […] È l’amore che unifica le tessere, i pezzi, i frammenti e li fonde nell’oro. Tutte le creature sono impastate di amore e di dolore e sono tutte creature della vita, perché in loro si agita Dio, l’infinito”.

Fiorenza Cirillo, 19 ottobre 2023